L’alleanza, Ursula e il passato smantellato

MONDO. Da qui al voto di giugno sentiremo citato sempre più spesso un nome elegante: Ursula, che sta per Ursula von der Leyen, candidata per il secondo mandato alla guida della Commissione europea.

L’esponente tedesca dei Popolari, la famiglia politica più importante del continente e già pupilla di Angela Merkel, è il volto più noto e spendibile del vertice Ue, tanto che nell’impatto comune è assimilata impropriamente a una sorta di premier. Si dice Ursula e s’intende «alleanza Ursula», cioè la coalizione Popolari-Socialisti-Liberali che ha governato la legislatura: quel centro politico favorevole al progetto d’integrazione e che in questi anni ha reagito con una certa efficacia a numerose prove esistenziali come pandemia e guerra in Ucraina. L’operazione Ursula mette così in gioco una precisa idea di Europa che ha retto l’urto sovranista.

Questo fino a ieri, perché nel frattempo il populismo sta abbandonando la fase d’esordio, quella della ribellione e della contrapposizione popolo-élite, per entrare nelle istituzioni ed essere parte dell’establishment. I tormenti della presidente, il sostegno e le perplessità attorno a lei riflettono il nuovo paradigma e l’avventura di Ursula che sembrava nell’ordine delle cose possibili ora si complica. Tutti i sondaggi, per il momento, prospettano un relativo rafforzamento delle destre radicali e una contenuta flessione dei partiti di sistema. Sulla carta ci sarebbero i numeri, benché al ribasso, per rinnovare l’attuale coalizione di Bruxelles. Un «campo largo», chiamiamolo così, che per tutelarsi deve però ampliarsi. Qui entra in gioco la figura del presidente della Commissione, che viene indicato dal Consiglio europeo (Capi di Stato e di governo) e poi eletto dal Parlamento. Von der Leyen, al turno precedente, ce l’aveva fatta per 9 voti, compresi quelli dei grillini e degli ultraconservatori polacchi. Ora è stata incoronata dal suo partito a trazione tedesca, senza calore, tra franchi tiratori e assenze. Le sono contro Ungheria e Slovacchia. Macron sembra tutt’altro che convinto e il suo alleato italiano, Renzi, è decisamente ostile: il club euroliberale tende al «no». Scholz non vede vantaggi per i Socialdemocratici. La stessa Meloni, in ottimi rapporti personali con Ursula, appare in fase di ripensamento.

Proprio l’entente cordiale con la premier italiana - una vicinanza che s’è espressa in una decina di missioni insieme e c’è chi l’ha definita «strategia della seduzione» - è stato il punto di svolta non favorevole per la leader tedesca. I Socialisti hanno già espresso la loro netta opposizione. Se per Meloni il lato debole si chiama l’imbarazzante Orban, per quanto non faccia ancora parte del gruppo conservatore, per von der Leyen si tratta di capire quale sia il suo perimetro e dove fissi i paletti. Un sentiero stretto, se non accidentato. Da un lato si deve allineare ai recenti orientamenti del suo partito. I Popolari hanno aperto a destra, pure in modo selettivo, perché in pratica hanno declassato la transizione ambientale a favore della difesa e della sicurezza: il Green deal era il cuore del primo mandato, la ragion d’essere dell’«alleanza Ursula». Dall’altro non può tradire la vecchia maggioranza, smentendo se stessa. In definitiva: l’ipotetico secondo mandato della presidente ha come base programmatica quel che appare come lo smantellamento della precedente esperienza.

Le riserve sono anche in casa dei Popolari, confermate dal predecessore di von der Leyen, il lussemburghese Jean-Claude Juncker, quando ha detto che «non si combatte l’estrema destra ripetendo le sue parole, molto spesso inaccettabili, ma affermando il loro contrario». Più un richiamo che un consiglio.

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