L’assalto
alla manovra
Il Governo
logorato

In Parlamento la manovra di Bilancio da 30 miliardi è assediata da 6.000 emendamenti, per quattro quinti presentati dalla maggioranza. Non è certo uno scenario insolito visto il consueto «assalto alla diligenza» che i partiti organizzano ogni volta che si presenta alle Camere la legge di Bilancio, però dice abbastanza bene il clima in cui il Governo è chiamato ora ad operare dopo mesi in cui bastava un sopracciglio alzato di Draghi per tacitare ogni protesta dei partiti riducendola ad un sommesso borbottio. Oggi invece le cose vanno un po’ diversamente, e lo stesso presidente del Consiglio si accorge di una erosione progressiva della sua figura cui certo fa ancora da argine il prestigio internazionale, il rispetto e la deferenza con cui viene trattato a Bruxelles come a Washington, però il logorio ormai è un dato visibile.

È probabile che questo motivi un certo movimento discretissimo di Draghi verso la candidatura al Quirinale prima che succeda qualcosa di negativo. Ne è testimonianza il «fuori onda» che Luigi Di Maio si è lasciato sfuggire qualche giorno fa con un ambasciatore e che prevederebbe uno spostamento del presidente del Consiglio sul Colle e una promozione a Palazzo Chigi del suo fedelissimo ministro del Tesoro Daniele Franco. Operazione - se vera - che avrebbe due aspetti di debolezza. Primo: Franco, tecnico sì autorevole e rispettato ma schivo e di nessuna empatia politica, come potrebbe governare una maggioranza eterogenea come quella che Mattarella è riuscito a mettere insieme e che è tenuta «incollata» dalla personalità del premier e dal vincolo quirinalizio?

Secondo, un Franco debole significherebbe una legislatura a rischio ed elezioni dietro l’angolo, prospettiva che i parlamentari soffrono sopra ogni cosa sapendo benissimo che pochi di loro torneranno a Roma con lo stipendio da deputato o senatore. Quindi chi volesse bloccare il progetto svelato da Di Maio finirebbe per impallinare Draghi nel segreto dell’urna: ma una bocciatura sulla strada del Quirinale sarebbe un disastro sotto tutti i punti di vista, più per l’Italia più che per la carriera personale di Draghi: precipiteremmo di nuovo nell’instabilità e nell’incertezza e l’attuazione del Pnrr quasi sicuramente si arenerebbe. E tuttavia le «voci» continuano a parlare di una vera ambizione del premier ad ascendere al trono repubblicano. Ed è quindi possibile che finisca per essere lui il «regista» di una partita in cui nessun leader politico mostra di saper condurre il gioco. Non c’è in campo né il De Mita che fece eleggere Cossiga al primo round né il Veltroni che incoronò in quattro e quattr’otto Carlo Azeglio Ciampi.

Il centrodestra e il centrosinistra non hanno in mano il volante e nessun leader ha sufficiente peso per trascinare gli altri. Ognuno fa il suo piccolo gioco di natura più elettorale (o personale: vedi Berlusconi) che istituzionale. Insomma, il rischio che a febbraio l’elezione del successore di Mattarella si trascini malamente per settimane è concretissimo. Forse è per questo che stanno salendo le quotazioni di Pier Ferdinando Casini il quale, a pensarci bene, ha parecchie caratteristiche utili: democristiano della Prima Repubblica, tra i fondatori del centrodestra ma eletto da ultimo nel Pd, abile e rispettato, solidi rapporti internazionali con tedeschi e americani, già stimato presidente della Camera e prudentissimo capo della Commissione sulle banche che avrebbe potuto provocare sfracelli trasversali e invece è finita (volutamente) nel nulla…Insomma un profilo perfetto per un presidente di compromesso che, come dicono a Torino, «si porta bene e non impegna». Certo Draghi perderebbe la partita della vita ma avrebbe pur sempre la prospettiva di trasferirsi a Bruxelles quando Ursula von der Leyen lascerà la presidenza della Commissione Europea.

© RIPRODUZIONE RISERVATA