Le armi alla Libia
L’ipocrisia del mare

È uno dei rari mercati a non aver conosciuto flessione in seguito alla crisi finanziaria del 2008. Anzi. Dopo la decrescita degli anni ’90, la spesa militare mondiale continua ad aumentare: nel 2017 è stata di 1.739 miliardi di dollari. I principali esportatori nel 2013-2017 sono nell’ordine Usa, Russia, Francia, Germania, Cina, Gran Bretagna, Spagna, Israele, Italia e Olanda, che detengono il 90% del mercato mondiale.

Non siamo irenisti, sappiamo che le armi servono ad eserciti e forze dell’ordine per tutelare le popolazioni da chi ha intenti delittuosi. E sappiamo che l’industria delle armi, come fanno notare i disincantati, dà lavoro a migliaia di persone. Ma la comunità internazionale si è data delle regole affinché mitragliatori, pistole, carri armati, missili e tutto quanto offre il catalogo non finiscano nelle mani sbagliate. Il caso della Libia, che ci preoccupa solo in quanto terra di partenza dei migranti diretti in Europa, è emblematico.

Una risoluzione delle Nazioni Unite (la 1970/2011) vieta l’esportazione di materiale bellico nel Paese in guerra ma navi attraverso il Mediterraneo hanno rifornito di mitragliatrici e missili anticarro i combattenti al fianco del primo ministro Fayez al-Serraj (riconosciuto dall’Onu, che beffa, e sostenuto da Turchia, Qatar e Italia), mentre il rivale, il generale Kalifa Haftar (che ha dalla sua parte Arabia Saudita, Emirati Arabi, Egitto, Francia e Russia) è stato dotato sempre via mare di blindati, utili a sferrare l’attacco in corso a Serraj. Il quale ha trasformato le motovedette donategli dall’Italia per contrastare l’emigrazione in navi da guerra, dotandole di mitragliatrici necessarie al nuovo scopo.

Come se non bastasse, uno degli esperti delle Nazioni Unite che deve sorvegliare sulla situazione e sul rispetto dell’embargo, Moncef Kartas, è stato arrestato all’aeroporto di Tunisi con l’accusa improbabile di essere una spia. La Libia è dilaniata da un conflitto per procura, con potenze regionali o mondiali schierate sui fronti opposti ed è sempre più instabile. Ma la comunità internazionale tace di fronte alle gravi violazioni. Sarà un caso che nel solo mese di maggio 700 migranti siano arrivati in Italia, quando da gennaio ne erano giunti appena 1.400? Parliamo d’immigrazione perché è tra i tasti che più colpiscono il senso comune degli europei e dei loro governanti, un vero e proprio spauracchio.

Ma leggendo nel dettaglio i dati sul commercio di armi si scopre altro. Il flusso è diretto soprattutto verso Asia e Oceania (il 42%, in particolare nell’area asiatica meridionale, zona di tensioni tra Cina, India e Pakistan) e verso il Medio Oriente (con un raddoppio in dieci anni al 32%). La vendita di materiale bellico all’Arabia Saudita è aumentata addirittura del 225%, materiale che serve soprattutto a sostenere una delle parti in causa nel feroce conflitto in Yemen (102.000 morti, altri 131.000 decessi per fame, malattie e mancanza di cure, di cui 85 mila bambini). Ma va registrata anche la vendita di armi italiane sia alla stessa Arabia che al Qatar, ritenuti i principali sostenitori del terrorismo internazionale.

Nei giorni scorsi i camalli del porto di Genova sono stati protagonisti di un gesto di disobbedienza civile: hanno impedito il carico su una nave saudita di generatori elettrici per uso militare. Già in Francia, a Le Havre, era stato boicottato il carico sulla stessa nave di cannoni destinati allo Yemen. Gli operai fanno ciò che non compie la comunità internazionale.

Si studiano leggi per multare o punire le navi delle ong che salvano migranti nel Mediterraneo, lo stesso mare solcato dai mercanti d’armi che violano embarghi. Una posizione quantomeno ipocrita.

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