L’economia non cresce, le strade da seguire

ITALIA. Da circa trent’anni la crescita della nostra economia è prossima allo zero.

Il deficit e il debito pubblico continuano ad aumentare, i cittadini consumano ancora poco, le banche concedono sempre meno crediti e le imprese riducono gli investimenti. È vero che nel 2022 è stata registrata una crescita del 3,8%, ma era legata all’effetto dell’assai discusso ecobonus, rivelatosi insostenibile per le finanze pubbliche. C’è da chiedersi, allora, come mai l’Italia sia finita in questa situazione di «stagnazione» e come si possa invertire la rotta. Per riuscirci bisognerebbe che, anziché affannarsi a proporre ricette facili o individuare pretestuosi capri espiatori, i nostri governanti si concentrassero sulla complessità dei problemi che hanno portato a tutto ciò. In questa era «sovranista» c’è chi, più o meno esplicitamente, individua come capro espiatorio l’Unione europea che, con i suoi tanti regolamenti e, soprattutto, con il famigerato Patto di stabilità impedirebbe al nostro Paese scelte autonome di politica economica orientate alla crescita.

In realtà, per ragioni culturali, politiche, economiche, finanziarie e geografiche, l’unica collocazione possibile per l’Italia non può che essere l’Europa. A differenza del Regno Unito, che pur avendo disposto sempre della sua moneta sta attuando con grandi difficoltà la Brexit, l’Italia non ha un passato di consolidate relazioni commerciali extraeuropee. Il nostro Paese è prevalentemente interconnesso con il Vecchio Continente e avrebbe enormi difficoltà a rilanciarsi da solo, partendo da zero, con un debito pubblico così elevato e per un terzo collocato all’estero. Peraltro, è la stessa Europa che in più occasioni ci ha richiamato ad affrontare i principali problemi che sono di ostacolo alla crescita. Tra questi, si pone in primo luogo il livello di conoscenze e di competenze della popolazione, che autorevoli ricerche indicano come inadeguato. Oggi, solo un quarto della popolazione adulta ha una laurea, contro una media del 40% nei Paesi avanzati comparabili col nostro livello di sviluppo. Il problema non è solo la quantità ma la qualità della formazione. Affrontare questa condizione, con interventi appropriati a ogni livello di istruzione, deve tornare a essere una «priorità nazionale» nell’attuale complesso scenario di sviluppo tecnologico.

Altri interventi appropriati si impongono per governare il fenomeno migratorio e non subirlo, come fino ad oggi è avvenuto. Si è investito poco o nulla nell’integrazione perché non si è stati in grado di guardare al lungo termine, in particolare alle seconde generazioni che sono ormai il 10% degli studenti italiani. La politica che si perde nella retorica «buonista» o «cattivista» non è più sopportabile. Servirebbe impegnarsi in una gestione ragionata che ci faccia trarre il meglio dalle migrazioni, cui va riconosciuto anche il merito di risolvere in parte il nostro problema del calo delle nascite.

Cosa dire poi del debito pubblico. Dall’ingresso nell’euro, nonostante potessimo godere di interessi pari allo zero, il nostro debito pubblico, a differenza di quello dei principali Paesi europei, è aumentato fino a raggiungere il 143% del Pil. Per favorire la crescita occorre mettere ordine nei conti fiscali, ma per raggiungere questo obiettivo occorrono interventi incisivi di razionalizzazione della spesa e, allo stesso tempo, bisognerebbe tassare maggiormente i consumi e il patrimonio e meno i redditi da lavoro e da impresa, al fine di stimolare l’iniziativa imprenditoriale e l’offerta di lavoro. Non ha senso pensare a una tassa patrimoniale straordinaria che evidenzierebbe una situazione di default mascherato. Servono interventi graduali che rispettino il principio di «progressività fiscale» e facciano in modo che il risanamento dei conti per un certo periodo di anni sia prevalentemente a carico dei più abbienti.

Così come è altrettanto urgente e necessaria una riorganizzazione della macchina burocratica dello Stato, che tenga conto delle politiche pubbliche di lungo periodo che si vogliono raggiungere . Da ultimo, serve una riforma seria delle politiche attive del lavoro, intervenendo sulla contrattazione, un’area in cui è stato fatto troppo poco, perché rimane centrata su un contratto nazionale più aggirato che applicato.

© RIPRODUZIONE RISERVATA