L’elezione del premier, la riforma e l’inganno

ITALIA. La maggioranza di Governo, per bocca dei propri leader, trova una bozza di accordo su una riforma costituzionale che prevede l’elezione diretta del presidente del Consiglio.

Servirà un’analisi puntuale del testo per valutarla nel merito, anche se le premesse sono imbarazzanti per lo svuotamento grave, che si profila, del ruolo di garanzia del presidente della Repubblica, che sarebbe spogliato dei suoi più incisivi poteri e ridotto a cerimoniere impotente. Si prevedono - a quanto pare - intricati meccanismi per (illudersi di) impedire alle forze partitiche di fare quello che continuano imperterrite a fare: muoversi spregiudicatamente nello spazio del potere, per conservarlo. In fondo, una confessione implicita e disperata di inaffidabilità…

Vorrei invece sottolineare qui un paradosso che si va profilando, o, meglio, confermando, e cioè che la riforma costituzionale è diventata il refugium delle battaglie identitarie (frustrate) della maggioranza di volta in volta al Governo. È infatti consistente l’annacquamento dell’indirizzo politico, nel percorso dalle promesse elettorali fino alla concreta attuazione, da ultimo con la legge di bilancio, assai «trattenuta».

Sul fronte delle politiche migratorie, ad esempio, lo scarto è perfino impressionante, a seguito del bagno di realtà in cui affogano (anche) i proclami elettorali. Ma sul piano più complessivo della politica estera, delle politiche fiscali, delle politiche economiche in genere, anche questo Governo sembra rassegnato a muoversi su un crinale molto stretto o entro un solco tracciato, quello cui si allude talora con il riferimento, quasi mitologico, all’agenda Draghi, indipendentemente dal fatto che questa esista davvero materialmente o meno.

Insomma, l’evidenza è che l’indirizzo politico del nostro Paese, anche a causa del grave indebitamento, è largamente etero-determinato e questo limite fa, per così dire, a pugni con il piglio muscolare che gli aspiranti governanti esibiscono in campagna elettorale. E allora che si fa? Per battere un colpo, ci si rifugia nella riforma costituzionale, provando a piantare una bandierina dove sembra sia ancora possibile piantarla… L’esito è però davvero sconfortante e paradossale.

La Costituzione, che dovrebbe essere il patto fondativo di mutuo riconoscimento tra le parti della Repubblica, che dovrebbe incarnare il quadro accomunante e incivilente della dialettica partitica, diventa invece - e non da ieri invero - lo sfogatoio delle pulsioni identitarie altrove frustrate. Anziché terreno comune, trincea da occupare. È paradossale che diventi invece spazio di una uniformità incolore l’indirizzo politico, che dovrebbe essere il luogo di espressione delle differenze programmatiche. Mentre la partigianeria si sposta indebitamente sul terreno costituzionale.

Dovremmo forse finalmente prendere atto del grande inganno racchiuso dietro l’ennesima proposizione della grande riforma costituzionale. Dovremmo forse finalmente richiamare le forze politiche alla serietà e alla responsabilità di fronte al popolo sovrano circa programmi e promesse per restituire credibilità a un teatrino, le cui recite interessano sempre meno i cittadini. Anziché colpevolizzare i cittadini per la fuga disgustata dalle urne, ci si interroghi sulla qualità della classe politica e sulla sua incapacità strutturale di autoriformarsi.

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