L’eterna battaglia
con Bruxelles

È difficile non vedere un nesso di causa-effetto tra l’armistizio siglato da Salvini e Di Maio dopo il terremoto elettorale e la minaccia di aprire una procedura di infrazione per debito eccessivo pronunciata dalla Commissione europea. Di fronte a una sanzione così pesante (che tra l’altro ci impedirebbe di accedere ai fondi della Bce sul debito che tanto ci hanno aiutato in questi anni), Salvini e Di Maio hanno accolto l’appello del presidente del Consiglio Conte – con una decisa moral suasion di Mattarella – a fermare le ostilità, a salvare il governo almeno temporaneamente, a non precipitarsi verso le elezioni anticipate.

Per la semplice ragione che da adesso in poi, e cioè dal pronunciamento della Commissione alla decisione dei governi cui spetta di dire l’ultima parola, bisognerà trattare. E trattare duramente. Per farlo serve un presidente del Consiglio in piedi insieme a un ministro del Tesoro su cui non penda la mannaia delle dimissioni e in definitiva a una prospettiva di stabilità almeno di medio periodo. Ecco perché Salvini e Di Maio hanno smesso di randellarsi e hanno ricominciato a parlarsi.

Davanti a noi insomma ci dovrebbe essere – il condizionale è d’obbligo – un periodo decentemente stabile. È chiaro che le discussioni sulle quote di potere post-elettorale sono già cominciate nella riservatezza e potrebbero portare anche a un minirimpasto: si dice che Toninelli sia in bilico, e magari come lui Trenta (Difesa) e Grillo (Sanità). Ma soprattutto c’è da assegnare il posto di ministro degli Affari europei lasciato vacante di Paolo Savona il quale, dopo una fugace comparsata a Palazzo Chigi in veste di ministro, si è andato a rifugiare alla Consob.

Adesso tocca a Tria e a Conte di vedersela con Moscovici e Juncker, che rimarranno in carica fino a ottobre. Entrambi hanno più volte detto di essere disposti al dialogo con Roma ma nello stesso tempo non nascondono le condizioni per fermare la macchina della procedura di infrazione. È noto che a Bruxelles disapprovano il reddito di cittadinanza, la flat tax, la riforma pensionistica: tutte misure fatte in deficit che secondo gli eurocrati fanno fare all’Italia un passo indietro vistoso nel processo di risanamento dei conti. Lega e M5S non accetteranno mai di rimangiarsi le loro misure di bandiera, epperò sarà necessario che presidenza del Consiglio e ministero dell’Economia si prendano degli impegni precisi nella prossima legge di Bilancio. Correggere i conti e ridurre il deficit sul Pil, evitare che scattino le clausole di salvaguardia e dunque l’aumento dell’Iva, sostenere per quel che si può una crescita sempre più debole (significativi i dati di ieri della Banca d’Italia). Bisogna mettere sul tavolo tanti miliardi per fare questo, e non è chiaro dove possano essere trovati: si potrebbero abolire gli 80 euro di Renzi ma il contraccolpo elettorale sarebbe pesante soprattutto per la Lega, tradizionalmente espressione dei ceti produttivi del Nord Italia. E a proposito di questi ultimi, dal convegno di Rapallo dei Giovani imprenditori di Confindustria è arrivato un segnale pesantissimo all’indirizzo del governo: «Basta, la nostra pazienza è finita», hanno detto accusando i gialloverdi di non aver fatto nulla di quanto promesso e di aver invece varato misure tutte negative per l’economia e le imprese. Anche a loro Salvini e Di Maio dovranno rendere conto al termine della trattativa con Bruxelles: se andasse male, le ricadute sull’Italia sarebbero pesanti da sopportare. Ma il problema è che il governo di Roma, sovranista-populista, è privo di veri alleati non solo nella Commissione in via di scadenza ma anche in quella che verrà e che sarà composta sulla base del compromesso tra le vecchie famiglie politiche europeiste e anti-sovraniste.

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