L’industria Ue
e la sfida dei chip

Attorno ai semiconduttori, e più precisamente ai microprocessori realizzati a partire da questi materiali, si gioca una delicata partita economica con un importante impatto sull’industria italiana. Il modo in cui l’affronteremo conterrà indizi decisivi sul futuro dell’Unione europea. Vediamo perché. La carenza di chip ha varie cause: dall’impennata della domanda di pc, tablet e smartphone all’interruzione delle catene del valore globali per colpa della pandemia, passando per le tensioni commerciali crescenti tra Stati Uniti e Cina. Il nostro continente è investito in pieno dalle conseguenze negative di una simile situazione, come dimostrano - anche in Italia - rallentamenti e fermi imposti ai produttori di automobili, apparecchi elettronici ed elettrodomestici.

L’Unione europea potrà giocare un ruolo attivo nella risoluzione del problema? Il presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, sembra essere convinto di sì. La settimana scorsa ha definito la «sovranità» come «la nostra capacità di indirizzare il futuro», e ha citato a questo proposito il «rilancio degli investimenti, soprattutto in ambiti strategici e innovativi come i semiconduttori».

A Bruxelles, su una linea simile, sembra muoversi il commissario al Mercato interno, il francese Thierry Breton, che ha annunciato per l’inizio del 2022 la presentazione di un progetto di legge dedicato proprio ai semiconduttori.

Lo European Chips Act si muoverà lungo due direttrici: sostegno europeo agli investimenti per ricerca e produzione di microprocessori, anche attraverso un ammorbidimento delle regole sulla concorrenza per facilitare gli aiuti pubblici, con in parallelo un meccanismo di «preferenza europea» nel caso di crisi sul mercato. «Non si tratta di protezionismo – ha detto Breton – ma di sovranità geopolitica».

Risorse e tempistica dello European Chips Act saranno decisive per la sua riuscita, ma intanto è lo spirito sottostante a far pensare a un possibile «momento Hamilton» per l’Unione europea. Alexander Hamilton, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, fu il primo segretario al Tesoro – il corrispettivo del nostro ministro dell’Economia – della nazione americana. Da qualche tempo è tornato nelle grazie degli europeisti, citato come un punto di riferimento per la sua scelta a fine Settecento di mutualizzare i debiti di guerra delle ex colonie di Sua Maestà e trasformarli in un debito nazionale. Anche a costo di una certa idealizzazione di quel passaggio storico, oggi l’emissione di debito comune che è alla base di Next Generation Eu (o Recovery Plan) è stata salutata da molti come il «momento hamiltoniano» dell’Ue.

Si tratterebbe insomma di un passo deciso verso la costituzione di un potere fiscale europeo centrale e autonomo. Eppure, a più di un anno dal varo di Next Generation Eu, anche i più ottimisti dovranno rilevare che un debito comune europeo non è di per sé sinonimo di maggiore capacità di fronteggiare le sfide economiche geopolitiche che ci attanagliano, di cui la carenza di semiconduttori è un esempio. Attualmente il mercato mondiale dei chip vale circa 440 miliardi di euro; la capacità produttiva dell’Ue è passata dal 44% a livello globale nel 1990 al 9% oggi, mentre Corea del Sud, Cina e Stati Uniti sono rispettivamente a 21%, 15% e 12% della produzione mondiale, anche grazie a sussidi statali. L’obiettivo di Bruxelles, condiviso da Roma, è raddoppiare la nostra quota da qui al 2030. In quest’ottica, proprio Hamilton potrebbe essere un’utile fonte di ispirazione. Come osservato da due studiosi statunitensi, Matthew C. Klein e Michael Pettis, nel 1791 il Segretario al Tesoro scrisse per il Congresso un testo intitolato «Sulle manifatture americane», dove sfidava la concezione classica del laissez-faire. Egli sosteneva che gli americani avevano bisogno di «incoraggiamento e sostegno da parte del Governo», anche sotto forma di dazi moderati, per sviluppare una capacità manifatturiera domestica – dal tessile alle armi – considerata fonte di futura ricchezza e allo stesso tempo un imperativo di sicurezza nazionale. Il suo approccio fu vincente e proiettò l’America tra le potenze mondiali.

Ecco perché una strategia ben congegnata per i semiconduttori «made in Europe» potrebbe contribuire al vero «momento Hamilton» per l’Europa contemporanea.

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