L’Italia frontiera
ha bisogno di continuità

Tutto, anche le virgole, porta sul Colle. Quel che si muove conduce in quella direzione, in maniera totalizzante, assorbendo ciò che avviene attorno, e non è poco. Probabilmente c’è un’enfasi fuori misura, come ha osservato il giurista Sabino Cassese, massimo teorico dello Stato. Forse anche un eccesso di personalizzazione, perché il destino delle istituzioni deriva pur sempre da un complesso processo decisionale. Tuttavia il rebus delle elezioni presidenziali, il «grande gioco» senza per questo banalizzarlo, è una partita decisiva per il futuro del Paese e cattura la psicologia collettiva. Più delle precedenti, perché vincolata alla doppia crisi: pandemia e rilancio economico del Paese.

Un’Italia alla ricerca di una sua normalità, ritrovandosi spesso eccezionale suo malgrado. Per ora disponiamo di una certezza e di alcune variabili. La prima riguarda l’indisponibilità di Mattarella al bis: il presidente lo ha detto e ribadito in modo netto, al di là della stima unanime conquistata sul campo. Una scelta che riflette un’ineccepibile lettura costituzionale: l’eccezione di Napolitano non può tradursi in regola. Allo stato Draghi è la personalità più forte e trasversale per la successione, l’uomo che può raccogliere il consenso più largo.

Una maggioranza istituzionale piace a tutti: a parole. Il problema è che stavolta Quirinale e Palazzo Chigi si tengono più di quanto è avvenuto nella norma e per quanto il Capo dello Stato sia comunque figlio del contesto politico. Il tema, da quel poco che si capisce, è come dare continuità a quanto rimane da fare e come trasferire una figura di garanzia da una istituzione all’altra senza compromettere la sopravvivenza di una coalizione così eterogenea. Il tema è dibattuto, in quanto l’inquilino del Colle garantisce, ma non governa, benché il Capo dello Stato sia sempre più essenziale per assicurare non solo l’unità nazionale ma anche la tenuta più complessiva del sistema politico-costituzionale.

Le variabili riguardano i partiti e lo scenario internazionale. Un Parlamento balcanizzato, se non sbrindellato, come non mai. Partiti deboli per decidere le sorti della magistratura più alta. Nessuno sa se esista un gruppone che faccia da traino. La consistenza dei gruppi parlamentari non corrisponde alla forza effettiva e attuale dei partiti. La trasmissione degli ordini di scuderia, dal vertice ai peones, non rappresenta una sufficiente garanzia precostituita. I grillini, il gruppo più numeroso, sono allo stato liquido. L’equilibrio del Pd è delicatissimo. In una legislatura che ha registrato più di 260 cambi di casacca (e non è finita), il Gruppo misto supera i 100 parlamentari, un record: i senza partito dalle provenienze più disparate, privi per la loro natura dell’uomo di sintesi. Il centrodestra, se compattato, ha i numeri dalla sua. In teoria il perno dovrebbe essere un’intesa di massima fra Pd e Lega. Non si vede però all’orizzonte il regista che metta insieme le sparse membra.

La corsa al Colle apre una prateria ai «soliti ignoti» franchi tiratori, appostati dietro l’angolo come da tradizione: un po’ comparse e un po’ protagonisti guastatori nel segreto dell’urna, talvolta strumenti di un disegno pianificato. Messaggi obliqui. La ferita dei 101 (in realtà erano di più) che hanno impallinato Prodi brucia ancora, ma c’è anche il precedente dell’illustre Ciampi, candidatura sostanzialmente condivisa da tutti: eletto sì alla prima votazione, tuttavia gli erano mancati 103 voti rispetto a quelli che aveva sulla carta. La variante più pesante, che condiziona gli assetti istituzionali e politici, è l’andamento del Covid che sta prendendo una brutta piega. Poi a fine anno scade lo stato d’emergenza, un passaggio poco considerato: prorogarlo o meno sarà un fattore divisivo.

Già con la legge di bilancio s’è visto che la luna di miele di Draghi incontra qualche difficoltà, forse inattesa: il discusso sciopero generale di Cgil e Uil ha interrotto la pace sociale, che ha governato responsabilmente il mondo delle fabbriche, e c’è da chiedersi se lo strappo incontri un sentire diffuso e se sia opportuno in tempi ancora d’emergenza. C’è pure la fiammata dell’inflazione, il nemico numero uno della stabilità economica, che si teme possa durare più a lungo del previsto. Fra debito pubblico in crescita e costo della vita pure, per noi si apre una fase di nuovo complicata. Con questi fondamentali ballerini, la possibilità di farcela nei prossimi anni dipende da come saranno riformate le regole europee della disciplina di bilancio. Riforme che a loro volta dipendono dal grado di affidabilità dell’Italia, garantita fin qui da Mattarella e Draghi.

Anche per questo motivo, prendendo a prestito il titolo dell’ultimo libro di Maurizio Molinari, l’Italia è diventata un «campo di battaglia». «Le grandi crisi globali passano per l’Italia, assegnandoci il ruolo di Paese di frontiera nelle trasformazioni del XXI secolo», ha scritto il giornalista: ricostruzione europea, ridimensionamento del populismo, il Mediterraneo quale epicentro di contese strategiche e rivalità economiche. Biden in America, il nuovo governo tedesco, la guida europea della Francia che scatta a gennaio: carte favorevoli. Il treno però non passa due volte e la soluzione del rebus Quirinale non potrà essere indifferente a vicende che ci chiamano in gioco.

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