L’Italia va al voto, l’ombra Draghi

Si vota il 25 settembre, la prima volta delle urne in autunno, e sarà una battaglia campale, tutti contro tutti. Ma all’indomani del draghicidio, di un’Italia tradita dopo essere riuscita a dismettere i panni del brutto anatroccolo della compagnia e del malato d’Europa, la sobrietà lessicale del presidente Mattarella ci ha restituito il senso della realtà. La stagione dei doveri è sempre fra noi e conviene sottolinearlo nel giorno in cui la Bce, dopo 11 anni, alza i tassi: un costo aggiuntivo per l’Italia, appesantita dal secondo debito pubblico più alto d’Europa.

Il governo Draghi rimane in carica per il disbrigo degli affari correnti, con un perimetro più allargato in sintonia con le varie emergenze: crisi sociale, Covid, Pnrr da attuare, guerra in Ucraina. L’esecutivo, nella sua fisionomia nominale, resta identico, nel senso che, in assenza di una sfiducia aritmetica, i ministri rimangono in carica. Verificheremo la dialettica fra compagine di governo e quelle forze che hanno voluto il ribaltone: partito di Conte, Lega, Forza Italia. Vedremo se in campagna elettorale succederà quel che era avvenuto durante il governo Prodi, con i bertinottiani un po’ in piazza e un po’ in Consiglio dei ministri.

Sono importanti le poche frasi di Mattarella, che immaginiamo amareggiato, comunque determinato a far prevalere «l’interesse superiore dell’Italia»: niente pause, dunque, mentre le forze politiche sono chiamate a dare un contributo costruttivo. Quell’interesse nazionale, che significa senso della comunità capace di intercettare bisogni e attese di un’opinione pubblica smarrita, calpestato in quella giornata al Senato in cui si sono sommati rancori repressi, rivincite personali e tatticismi elettorali. Conviene riflettere su un’immagine che ritroveremo da qui al voto anticipato, perché poi potrebbe rivelarsi una sorpresa nell’urna: l’emergere di una «maggioranza silenziosa», espressione degli interessi organizzati e trasversali della società civile, che ha chiesto di non liquidare l’esperienza di governo affossata dagli irresponsabili. Nella consapevolezza che questa era l’ultima chiamata e insieme un progetto di ricostruzione dell’Italia. L’impressione è che si sia creato un vulnus che, insieme all’astensionismo montante, sarà il convitato di pietra del 25 settembre: molto dipenderà dall’approdo di un pensare positivo senza finora una definitiva identità partitica, o comunque in cerca di qualcosa di cui sente l’assenza.

La «legislatura del populismo», la più anomala della storia repubblicana che ha ricondotto il Paese ad essere un discusso laboratorio politico sorvegliato dai partner europei, ma anche lo spazio di tempo che ha espresso un governo di unità nazionale che ha ricondotto il Paese al pragmatismo euroatlantico e alla credibilità internazionale, non finisce di sorprendere. Sarà una campagna elettorale breve, sotto l’ombrellone e soprattutto tossica perché la sfida con il fronte populista-sovranista è lontana dall’essere vinta. Niente di nuovo in apparenza, visto che la ruvida e permanente campagna elettorale è una nostra caratteristica, ma in questi mesi ce lo siamo potuti permettere perché c’era lo «scudo» di Draghi. Se i corpi intermedi della società rivelano i tratti di una convivenza civile in un confronto plurale, il sistema dei partiti ricomincia da pessime consuetudini. Con qualche smottamento e con l’inizio di un processo di scomposizione. Chi paga dazio? Berlusconi, appiattitosi su Salvini e fagocitato dal leader leghista, è stato decisivo nell’azione dei ribelli e ora, dopo la Gelmini, lasciano il partito altri due nomi eccellenti: i ministri Brunetta e Carfagna. La Lega, viceversa, almeno per ora si conferma un partito gerarchizzato, fatto su misura del leader: l’ala governista non riesce, o non vuole, tradurre il proprio malumore, un rumore di fondo, in un’azione politica che corregga il timbro demagogico. Il Pd, che è stato un po’ la guardia pretoriana di Draghi, subisce un cambio di paradigma con la fine del «campo largo», cioè l’alleanza con Conte di cui si sono perse le tracce: qual è la soluzione di ricambio in un sistema elettorale che prevede una parte di collegi uninominali dove sono in lizza i candidati comuni delle rispettive coalizioni? L’area di frontiera dei cespugli centristi è in costruzione e, come da tradizione, dispone di tanti generali e di altrettante controversie interne, e di pochi voti. Draghi, ieri alla Camera, sembrava preso da un moto di sollievo, fino a spingersi alla battuta dei banchieri che pure loro hanno un cuore. Un minuto e mezzo di applausi, non tutti sinceri. Draghi non c’è più, anzi per certi versi c’è ancora. Insomma: non appare, ma la sua proiezione conta, la sua eredità pesa. In campagna elettorale sentiremo parlare dell’agenda Draghi, del metodo dell’ex banchiere centrale, di un certo progetto dell’Italia che, per come si sono messe le cose, collide con la natura stessa di questo centrodestra convinto del bingo a portata di voto. L’esito non è già scritto e attenzione: la società civile ha detto la sua e occhio all’effetto boomerang di giornate ribalde, in cui è andato in scena l’autogol dell’interesse nazionale.

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