Lo scontro fra poteri. I confini da rispettare

ITALIA. Nella nota intervista al «Corriere della Sera» il ministro della Difesa Crosetto adombrava il pericolo che una parte della magistratura stesse complottando per far cadere il Governo.

Ipotesi gravissima, perché evocava azioni punibili in modo esemplare, trattandosi di un attacco ad uno dei poteri fondamentali della nostra democrazia. La vicenda aveva creato un profondo sconcerto, perché le frasi incriminate erano state espresse da un uomo politico ritenuto molto ligio alle regole istituzionali. Di fronte a informazioni tanto allarmanti (ricevute non si sa da chi), il ministro aveva l’obbligo di riferire alla Procura della Repubblica competente. Così non è stato e Crosetto, su richiesta dell’opposizione, aveva scelto di chiarire la vicenda innanzi al Parlamento. Scelta opinabile, che, peraltro, non ha fugato affatto i dubbi e le perplessità di coloro che rimarcavano come dovere essenziale di un ministro della Repubblica fosse quello di informare dettagliatamente gli organi giudiziari di quanto era venuto a conoscenza. A maggior ragione se tali contenuti riguardavano una parte della magistratura.

Nell’aver scelto la via dell’intervista, Crosetto ha dato prova di grave irresponsabilità. Non si agitano accuse generiche sorrette da mere allusioni o da opinioni anonime. Sullo sfondo del «caso» sollevato dal ministro della Difesa emerge il contorto rapporto tra le Destre e il mondo delle «toghe». Da un lato, la tradizionale avversione di Forza Italia, in particolare sulle decennali vicende giudiziarie di Berlusconi; dall’altro, le posizioni di Lega e Fratelli d’Italia, tradizionalmente inclini a lasciare spazio alla magistratura nella sua opera di indagini e di giudizio. All’origine vi è il problema del rapporto tra sistema politico e magistratura. Questa - nella nostra Costituzione - è un potere (ancorché la Carta costituzionale la definisca un «ordine»). È un potere perché è indipendente dal Governo e opera in autonomia per garantire il rispetto delle leggi.

Lo storico Raffaele Romanelli osservava, anni addietro, che la complessità delle società contemporanee impone di «riflettere sui rapporti che intercorrono tra magistrati e sistemi politici, e più in generale tra giustizia e potere». Nel rapporto complesso tra politica e giurisdizione - in quanto funzioni formalmente separate nella divisione dei poteri - sono presenti tre pilastri (legalità, diritto, legittimazione) che fungono da sostegno del tessuto democratico, ma intorno ai quali si sviluppa una perenne competizione finalizzata a modificare gli equilibri in campo.

Al riguardo, le vicende politico-istituzionali degli ultimi decenni hanno mostrato quanto l’intreccio tra potere politico e potere della giurisdizione abbia determinato situazioni di frizione che sono sfociate spesso nello scontro. In Italia, a partire dal 1992, una magistratura tenuta nelle strette maglie di una subordinazione al potere esecutivo ha acquisito una forza d’urto tale da procurare ripetuti smottamenti negli assetti politici. Ciò ha prodotto una sorta di «populismo giudiziario» che, sostenuto da frange dell’opinione pubblica, è arrivata ad assurgere ad atteggiamenti forcaioli. Tali fenomeni si sono verificati, quasi esclusivamente, sul terreno della corruzione. Corruzione che, normalmente, ha visto protagonisti esponenti del mondo imprenditoriale e pubblici funzionari. In tale «patto» sbucavano sempre esponenti del sottobosco politico, nel ruolo di «faccendieri» o di «facilitatori», ai quali spettava il compito di interferire nelle scelte politiche in modo né trasparente, né legittimo. Per voltare pagina occorre che si tengano saldi i confini tra giurisdizione e sistema politico, evitando incursioni reciproche, ma tenendo ferme, le «regole di ingaggio» di ciascuna parte. Si tratta di un compito tutt’altro che facile, ma è l’unica strada da seguire.

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