Lo spazio del dolore
non venga amplificato

Ci sono eventi che segnano profondamente la nostra esperienza. Si tratta il più delle volte di fatti negativi, dolorosi, di tragedie che all’improvviso stravolgono la nostra quotidianità rendendo la vita quasi insopportabile. La forza di simili eventi è tale ch’essa non si esaurisce mai nel presente in cui il fatto accade ma investe anche il passato e il futuro del soggetto coinvolto che da quel momento è portato a riconsiderare, proprio a partire dal male sofferto, la sua vita passata e soprattutto il futuro che lo attende: ora egli vede il suo passato sotto un’altra luce e pensa al suo futuro con la certezza che non potrà più continuare a vivere come faceva prima. Bisognerebbe riflettere con maggior serietà su questa irriducibile tendenza a diffondersi della sofferenza che emerge con estrema chiarezza soprattutto nel male compiuto; colui che compie il male non può illudersi che gli effetti del suo gesto finiscano nell’istante in cui ha compiuto il male poiché essi, in verità, si diffondono molto più profondamente e ben al di là di quell’istante stesso.

Quando si umilia o si offende o si tradisce qualcuno si interviene all’interno della sua più profonda esperienza arrivando così ad intaccare il suo stesso modo di cogliere l’intera realtà che dal quel momento sarà percepita, rischierà di essere percepita, ancora prima che giudicata, a partire da quel male subito. In altre parole: chi compie il male deve sapere che tale male è così «fecondo» da arrivare a coinvolgere, a compromettere, ancora prima del cervello dell’altro (il suo modo di riflettere e giudicare) e della sua mano (quella attraverso la quale egli opera ed agisce), il suo stesso occhio (quello che percepisce e guarda).

Ma anche chi subisce il male o è investito da un’ingiustizia del tutto gratuita o viene raggiunto da un’improvvisa sofferenza deve avere la forza e la serietà di riflettere su ciò che gli capita. Da questo punto di vista il compito della vittima è molto più difficoltoso ed impegnativo di quello del carnefice; si tratta, infatti, di evitare la trappola di «fare la vittima», trasformando così la propria sofferenza in un principio di identificazione, nel fattore a partire dal quale si arriva a concepire e a comunicare la propria identità soggettiva. Quest’ultima è molto più ampia e misteriosa della sofferenza che in un certo momento investe colui che la patisce: soffro, infatti, ma non sono questa sofferenza; o anche: la mia identità, il mistero di ciò che sono (mistero che coinvolge in modo essenziale anche tutti coloro che ho incontrato, che sto incontrando e che incontrerò), non si esaurisce nella sofferenza che ora sto patendo.

La ragione della difficoltà a resistere a tale tentazione, per l’appunto quella di «fare la vittima», non è difficile da individuare. Più la sofferenza è profonda, maggiore è l’attrazione ch’essa esercita nei confronti del soggetto: non riesco a pensare ad altro, non riesco a trovare un attimo di pausa, e così piano piano la sofferenza tende a configurarsi come il tutto della mia intera esperienza. «Facendo la vittima», dunque, non faccio altro che riconoscere questa evidenza ma al tempo stesso tento anche di capovolgere una situazione di estrema debolezza in un certo punto di forza; visto che la sofferenza non mi lascia, allora la trasformo in un mio «argomento», in un mio «motivo di gloria», nell’unico contenuto delle mie parole, quello che finisce per riempire le mie giornate e dare forma all’immagine attraverso la quale entro in rapporto con gli altri. Sono colui che soffre, che ha subito un’evidente ingiustizia, che è stato investito da un male insopportabile; dunque, sono autorizzato dalla vita stessa a non pensare ad altro, a non parlare d’altro, ma soprattutto - ecco il sintomo di una patologia dell’ordine soggettivo - non voglio pensare ad altro, non voglio parlare d’altro. La sofferenza, l’ingiustizia, il male subiti si sono trasformati in punti di forza, in punti d’appoggio della mia inquietudine.

Lo si sarà notato: fino ad una certa età le persone tendono a non comunicare la propria data di nascita, poi arriva un momento in cui ci si vanta di avere ottanta o novanta anni. In questo modo, non potendo ritornare giovani, non si trova di meglio che vantarsi di essere diventati vecchi. Insomma, si tratta sempre della stessa legge: non si smette un istante di parlare di sé, e se ora sono nella sofferenza allora continuerò a parlare di me proprio attraverso questa sofferenza.

Per evitare simili perversioni, per evitare il penoso narcisismo del «fare la vittima», bisogna forse dare prova di un altro coraggio, di un coraggio estremo: quello di accettare di dimenticare rifiutando il protagonismo che la sofferenza e l’ingiustizia subiti sempre e comunque garantiscono. Il dolore è una cosa seria, ma essere seri con il dolore implica la capacità di non trasformalo in un’occasione per parlare d’altro, vale a dire, sempre e comunque, di me stesso. Lasciamolo lì, non diamogli altro spazio oltre a quello, infinitamente ampio, ch’esso si è già preso. Certo, dobbiamo fare memoria di ciò che è accaduto e continua ad accadere, ma non dobbiamo trasformare la memoria in quel luccicante idolo così caro ai tantissimi moralisti che la vicenda del Covid ha portato alla luce. La memoria autentica è per sua natura selettiva e ha sempre a che fare con quell’avvenire per aprirsi al quale bisogna anche accettare di dimenticare. Per non restare chiusi e bloccati nel già stato evitiamo la retorica della memoria e impariamo anche a dimenticare.

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