M5s, ora a destra
ora a sinistra

Finché imperavano i partiti-chiesa non c’era scampo: o si era fedeli o apostati, o amici o nemici. Dichiararsi «né di destra né di sinistra» significava consegnarsi mani e piedi ai custodi del «politicamente corretto» che comminavano d’autorità il bando. Si era equiparati a dei vili qualunquisti o, peggio, a dei pericolosi «camerati», nostalgici «coperti», travestiti da democratici per paura del ghetto. Tramontata la stagione delle ideologie, qualificarsi né di destra né di sinistra è diventato socialmente accettabile, addirittura un vanto per chi si vuole smarcare dai partiti tradizionali, accusati di aver costituito una casta. È il modo migliore per passare - o anche solo apparire - alternativi alla «cattiva politica» e con ciò intestarsi la rappresentanza di quella larga parte dell’opinione pubblica che ha la politica in «gran dispitto». Né di destra né di sinistra si sono professati, prima la Lega Nord di Bossi, poi - con maggior enfasi e, bisogna dire, anche con maggior profitto - il M5s di Grillo.

Una siffatta professione di alterità al «sistema», se comportava prima dei costi, ora assicura dei vantaggi. Permette di guadagnare l’aureola di difensori del «popolo» oppresso dalla casta nonché dai «poteri forti». Esenta inoltre dall’onere di elaborare un pensiero, di vincolarsi a un programma, di dotarsi di organi di governo interno democratici. Ci pensano i partiti tradizionali a procurare il consenso. Qualunque cosa facciano, fanno male, per cui ai loro avversari è assicurata una tranquilla rendita di posizione. Porsi al di fuori di ogni classificazione politica consente infine piena libertà di movimento. Non c’è nessuna stella polare splendente che indichi la strada. Ci sono soltanto (cinque) vaghe stelle, che non indicano nessuna strada, neppure una direzione. Ambiente, trasporti, acqua, connettività e sviluppo (le «cinque stelle» appunto del M5s) sono solo evocazioni di problemi, non soluzioni da adottare. Tanto meno, forniscono il tracciato di un pensiero originale o la filigrana di un’ideologia. Tutto è indeterminato, tutto resta indefinito e quindi ri-definibile a piacere. Non c’è statuto che regoli la vita democratica del movimento. «Uno vale uno» vale uno, nessuno, centomila e, quando va bene, si risolve in un’occasionale convocazione alle urne telematiche, per confermare, o meno, quanto proposto dalla piattaforma Rousseau.

Piena libertà di movimento, si diceva. Talmente ampia che si possono compiere precipitose inversioni di marcia senza pagare dazio. Governo con la destra e, immediatamente dopo, governo con la sinistra. Impegno solenne a non contrarre alcuna alleanza, e poi ecco un «contratto di governo» stipulato con la Lega, seguito, a stretto giro, da un pieno «accordo di legislatura» con Pd, Iv e LeU. Grandi opere, come Tav, Tap, Gronda di Genova, ponte sullo Stretto di Messina, sulla cui bocciatura si giocava la stessa identità del M5s: sbloccate. Il vincolo dei due mandati per gli eletti si trasforma in una possibile permanenza fino alla terza legislatura, facendo partire la conta da zero, con buona pace della logica matematica. Il capo del movimento, in carica fino a poche settimane fa, si sveste dei panni di sostenitore della protesta ribellistica dei gilet gialli e, con l’abito ufficiale di ministro degli esteri, si scopre propugnatore di «un partito dei moderati». La causa dell’euroscetticismo passa dal Conte 1 e il Conte 2 a europeismo convinto. Grillo, l’animatore del Vaffa, si fa sponsor di un polo progressista col Pd, ossia con quello che sino a poco prima era sbeffeggiato come il Pdl senza la «elle». È facile ostentare incredulità di fronte a tale libertà di movimento, ma ci si sbaglia: è solo la libertà che si consentono i partiti post-ideologici «né di destra né di sinistra», ossia ora a destra ora a sinistra.

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