L'Editoriale
Martedì 12 Febbraio 2019
Mahmood, voce
italiana e stecche
L’Italia per certi aspetti è un Paese retrogrado. Lo dimostrano polemiche basate sul nulla o su argomenti che meriterebbero serietà e profondità di giudizio. Perfino sul vincitore di Sanremo si è scatenata una canea, alla quale hanno partecipato anche importanti rappresentanti istituzionali. Per non dire del dibattito sui social, aggressivo e disinformato come capita spesso. Il vincitore del Festival come noto è Alessandro Mahmood (il cognome è il nome d’arte), 26 anni, cresciuto nella periferia milanese, nella zona di Gratosoglio, figlio di madre italiana originaria della Sardegna e di papà egiziano. Il cantautore non ha mai visto l’Egitto: il padre ha lasciato la famiglia quando lui aveva sei anni ed è stato allevato dalla famiglia della mamma (che ha 12 fratelli). Mahmood è quindi italianissimo. Le frasi in arabo nell’ultima strofa della canzone vincente, intitolata «Soldi», sono un omaggio a una parte delle sue origini, umanamente comprensibile.
Sui social c’è chi ha steccato contestando l’assegnazione del primo posto a uno straniero, quando ci sono altri italiani con cognome di derivazione non italiana (per restare in ambito musicale, Malika Ayane, nata anche lei a Milano, da padre marocchino e madre italiana). Inoltre Alessandro artisticamente non salta fuori dal nulla: nello scorso dicembre ha vinto Sanremo giovani e nel suo curriculum ci sono brani scritti per il più famoso Marco Mengoni. C’è stata anche una polemica sulla graduatoria e nel mirino è finito il meccanismo di formazione delle classifiche: la Giuria d’onore ha un peso del 20% sul giudizio finale e quella della sala stampa del 30%. Con le loro scelte le Giurie hanno ribaltato le preferenze espresse dal pubblico con il televoto a pagamento (50%). Una mescolanza discutibile, ma la responsabilità non può essere attribuita certo al vincitore.
Il governo sovranista è partito lancia in resta (come se non avessimo problemi più gravi a cui dedicare il dibattito), con i due vice primi ministri a dettare la linea. «Sanremo è lo specchio dell’Italia. Élite e popolo? Giuria e persone reali, quindi due mondi lontani. E i vincitori sono vittime del sistema» ha commentato il ministro dell’Interno Matteo Salvini, che tifava per Ultimo e ha definito la Giuria d’onore (formata da Mauro Pagani, Ferzan Ozpetek, Camila Raznovic, Claudia Pandolfi, Elena Sofia Ricci, Beppe Severgnini, Serena Dandini e Joe Bastianich) un circolo di radical chic, augurandosi «che non ci sia veramente qualcuno a sinistra che, essendo ridotto male, cerca di prendersi rivincite sul Festival».
Il ministro del Lavoro e per lo Sviluppo Luigi Di Maio, che parteggiava per Cristicchi, ha detto la sua su Instagram: «Non ha vinto quello che voleva la maggioranza dei votanti da casa, ma quello che voleva la minoranza della Giuria, composta in gran parte da giornalisti e radical chic. E qual è la novità? Questi sono quelli sempre più distanti dal sentire popolare e lo hanno dimostrato anche nell’occasione di Sanremo». Nelle agenzie c’è un profluvio di commenti di altri politici. A sconfessarli è intervenuto l’inquieto Alessandro Di Battista, tra i leader dei 5 Stelle: «Mi scandalizza che la politica sia entrata pure a Sanremo, non certo la canzone di Mahmood.Esistono tanti tipi di razzisti in Italia, anche quelli che utilizzano la vittoria di un cittadino italiano a scopo elettorale».
Salvini ha telefonato a Mahmood: «Gli ho voluto dire direttamente che si deve godere la vittoria e che sono felice per lui. È un ragazzo italiano che suo malgrado è stato eletto a simbolo dell’integrazione. Ma lui non si deve integrare, è nato a Milano. Lo hanno messo al centro di una storia che non gli appartiene». Chi lo ha messo al centro sono però gli stessi politici con ruoli istituzionali. Perfino nella critica al sistema di voto delle canzoni emerge l’ossessione manichea di dividere l’Italia tra popolo ed élite (nella quale sono inclusi i giornalisti ovviamente), come se in mezzo non ci fosse niente e la realtà non fosse più complessa. Mahmood non è un caso di integrazione, ha ragione Salvini. Ma ci sono migliaia di giovani immigrati, nati e cresciuti in Italia, che devono attendere i 18 anni per avere la cittadinanza, sospesi tra la cultura d’origine e quella d’insediamento che li considera stranieri per anni. Però il clima sociale non favorisce il dibattito sul tema: si rischia di passare per radical chic.
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