Maternità surrogata
Crudeltà da abolire

Bisogna dare dei nomi gentili alle atrocità perpetrate in nome del progresso e dell’egoismo. Del resto anche i nazisti chiamarono lo sterminio e i loro esperimenti di eugenetica «soluzione finale». Anche l’aereo che portava la bomba atomica di Hiroshima aveva il nome dell’amata e tenera madre del pilota, Enola Gay. Uno di questi nomi gentili è «gestazione solidale», la facciata con cui viene dipinta la maternità surrogata dai loro propugnatori. Si prende una madre, solitamente abitante nel Secondo o nel Terzo mondo, le si paga la gravidanza inoculandole un seme in provetta (magari ordinando i gameti come si sceglie una cravatta o un profumo) e quando nasce il neonato lo si rende subito orfano consegnandolo ai committenti. Naturalmente si è trattato di un «dono».

Il fatto che il dono sia stato pagato in nero, nell’ambito di un mercato fiorente che pullula nei Paesi dell’Est e in Sudamerica, è un puro dettaglio. La vicenda della bambina di Kiev, venuta alla luce più o meno in questo modo e poi abbandonata dai genitori committenti come si rende una bambola al negozio, dovrebbe aprire gli occhi sulle conseguenze di questa pratica da bandire come un crimine internazionale.

Ora la bimba è stata data in affido a una coppia in attesa di due genitori adottivi che le garantiranno un futuro sereno. Ma il lieto fine deve indurci a riflettere sull’utero in affitto. Il lieto fine di una storia agghiacciante e assurda. Una coppia italiana commissiona la gravidanza, poi dà il neonato in cura per un anno e mezzo a una «tata» reclutata attraverso un’agenzia interinale e stipendiata mensilmente. Ma quando finalmente la vedono nella capitale ucraina per portarsela in Italia, dopo averla riconosciuta, decidono di lasciarla lì. «Non la sentivo mia», dirà l’aspirante madre in un’intervista. La pediatra della Croce Rossa che è andata a riprenderla su mandato del Tribunale dei minori, una che ha lavorato tra i bambini del Bangladesh, della Palestina, della Tunisia, dell’Etiopia, una che insomma le ha viste tutte, ha raccontato di essere rimasta sconvolta quando ha visto la bimba. La piccina era splendida, docile, dolce, accudita meravigliosamente dalla «tata» che ha vissuto straziata il distacco come un lutto. Alla pediatra all’aeroporto ha consegnato una busta piena di foto e di giochini da consegnare alla famiglia adottiva affinché la bimba, quando sarà grande, non dimentichi chi nel suo primo anno e mezzo di vita l’ha accudita e le ha voluto bene. Nemmeno Dickens avrebbe potuto immaginare uno strazio del genere. Uno strazio creato per mano dell’uomo, non della natura o del destino. Il figlio non come essere umano, non come persona fin dal concepimento. Un figlio come oggetto d’acquistare, negare o accantonare. È questa la pretesa «cultura dei diritti civili» che di civile e di umano non ha niente.

La storia della bimba di Kiev è la punta di un iceberg fatto di esseri umani in stato embrionale in vitro abbandonati nei congelatori, di produttori di gameti, di neonati nati da madri che non conosceranno mai, di medici e infermieri senza scrupoli, di trafficanti di embrioni. Su tutto questo la nostra legislazione è ancora inadeguata, siamo ancora al Far West della natalità, complice la cultura di matrice libertaria. E così si fa strame della maternità responsabile, che obbliga un genitore a essere responsabile della creatura che si chiama alla vita, si esalta l’egoismo che spinge a calpestare tutti i diritti naturali di un bambino, scelto come un abito di sartoria, selezionato geneticamente a seconda piaccia o no ai suoi genitori committenti (a questo siamo arrivati). Il 20 novembre è l’anniversario della Convenzione internazionale dei diritti del bambino. Sarebbe utile considerare l’utero in affitto come una delle principali minacce per l’infanzia.

© RIPRODUZIONE RISERVATA