Meloni incalza la Lega e i Dem

La riunione della cabina di regia e l’allentamento delle restrizioni anti-Covid ha confermato ancora una volta il cosiddetto «metodo Draghi», che è poi niente altro che la regola del buon senso: guardiamo i numeri della pandemia e agiamo di conseguenza. Niente di più, niente di meno. Così si è proceduto col coprifuoco: nessuna abolizione fino a giugno, allentamento con un un’ora in più di «aria libera». Insomma, gradualità. Intorno a queste misure di «rischio calcolato», per usare la definizione di Draghi, molto si agita Matteo Salvini che avrebbe voluto aperture generalizzate subito, dappertutto, a qualunque ora, in tutti i settori, ma che ha dovuto rassegnarsi al passo dell’alpino del generale Figliuolo. Salvini sta giocando molte delle sue carte per intestarsi la voglia di libertà di movimento degli italiani: il suo problema però è che Draghi tira dritto per la sua strada e gli concede solo ciò che ritiene, in genere un terzo di quello che il capo leghista chiede ad alta voce. Alla fine il risultato propagandistico è magro.

Né si capisce il senso di una battaglia contro le riforme contenute nel Pnrr appena approvato anche dai ministri leghisti (a cominciare da Giancarlo Giorgetti, il leghista di governo), riforme indispensabili per ottenere i fondi Ue: senza giustizia, fisco, pubblica amministrazione, semplificazione e concorrenza possiamo anche dimenticarli, i miliardi del Next Generation Ue. Eppure Salvini dice che «non è questo il governo che può fare le riforme». Una contraddizione che rischia di penalizzarlo proprio mentre la sua alleata-avversaria Giorgia Meloni aumenta i consensi. Secondo l’ultimo sondaggio il partito di Giorgia è ormai sopra il Pd, sia pure per un soffio, e a un solo punto e mezzo dalla Lega, nel frattempo scesa al 21 per cento dal trionfale 32 dei tempi d’oro, diciamo pre-Papeete. La lotta per il primo posto è aperta da tempo.

Nel tentativo di sfruttare questa difficoltà (e per sanare le proprie) Enrico Letta attacca Salvini e anzi lo invita a lasciare il governo: «Se si oppone alle riforme del Piano europeo, è meglio che se ne vada». Letta si è scelto come avversario numero uno il leader della Lega perché anche lui ha parecchi problemi da risolvere: il primo è l’alleanza con i grillini che non ingrana. Lo dimostra il pasticcio delle candidature per le amministrative di ottobre in cui la coalizione giallo-rossa ha fallito quasi tutti gli obiettivi a cominciare da Roma e con la sola eccezione (forse) di Napoli. Letta sa benissimo che il voto amministrativo sarà usato dai capicorrente del Pd per giudicarlo, ma ha a che fare anche con un alleato come Giuseppe Conte, la cui presa sul M5S è assai debole: del resto sarebbe assai difficile far di meglio in un partito che vive una crisi verticale di identità e di consenso elettorale, in cui tutti sono contro tutti, ed è alla vigilia della scissione sostenuta da Alessandro Di Battista e Casaleggio jr. È per questo che il Pd ora, a differenza dell’era zingarettiana, guarda ai mille spezzoni della sinistra che fu con cui ricomporre una forza politica più ampia. Tutti, con l’eccezione di Matteo Renzi, lasciato a curarsi i suoi guai: l’1,8 per cento di Italia Viva, gli impegni all’estero, gli incontri spericolati con agenti dei servizi. Molti vedono ancora oggi Renzi come l’erede di Berlusconi, colui che potrebbe attrarre i voti residui: a patto naturalmente che siano d’accordo le correnti (numerose anche qui) di Forza Italia, oggi soprattutto impegnate a difendere le loro posizioni di governo sia dalle mire di Salvini sia dalle aspirazioni leaderistiche di Giorgia Meloni.

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