Non diamo stampelle
al regime di Erdogan

Il primo accordo commerciale siglato dal Regno Unito appena uscito dall’Unione europea, ha come partner la Turchia: 20 miliardi di euro nei settori manifatturiero, automobilistico e dell’acciaio. Il governo di Londra ha necessità di stringere intese per attutire il contraccolpo della Brexit, calcolato dallo stesso governo in un 4% del Pil nei prossimi cinque anni. Con Ankara è stato rinnovato un accordo preesistente che verrà esteso ai servizi digitali e liberalizzando le politiche su agricoltura e commercio.

Una grande boccata d’ossigeno per l’autoritario presidente turco Recep Erdogan, alle prese con una crisi economica interna grave e con la conseguente perdita di consensi (secondo un sondaggio dall’istituto demoscopico Avrasya, in caso di presidenziali otterrebbe il 38,7% contro il 41,9% del sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu): crollo dei salari, inflazione, disoccupazione - acuite dalla pandemia di Covid - hanno colpito le classi medio-basse e basse, base elettorale del «Sultano». Anche da qui la scelta dell’interventismo in politica estera, l’uso strumentale dell’islam e la durissima repressione interna.

L’intesa con Londra arriva un mese e mezzo dopo il Consiglio europeo a Bruxelles, nel quale i leader decisero di imporre sanzioni (di fatto solo un maquillage) a privati e aziende turche legati ad attività di ricerca di idrocarburi nelle aree contese con aggressiva spavalderia dalla Turchia a Grecia e Cipro nel Mediterraneo orientale. Francia, Grecia e Cipro avevano chiesto con forza l’applicazione dell’embargo sulle armi e la sospensione degli accordi di unione doganale Ue di cui Ankara fa parte.

Ma mettiamo in fila le nefandezze e le ambizioni spropositate di Erdogan: forse è venuto il momento che l’Europa abbandoni il suo aplomb diplomatico e che il Regno Unito non si presti come stampella di un regime traballante. Migliaia di oppositori sono in carcere solo per aver espresso la loro opinione. Bisognerebbe leggere il libro «Non rivedrò più il mondo» di Ahmet Altan per immedesimarsi nelle condizioni dei detenuti politici. Tra i maggiori scrittori turchi contemporanei, ex direttore del quotidiano «Taraf», processato innumerevoli volte per il contenuto dei suoi articoli e per l’impegno a democratizzare il Paese, Altan è stato condannato insieme al fratello all’ergastolo senza condizionale con l’accusa di aver partecipato al tentato golpe del luglio 2016. Sentenza già scritta, basata su sospetti e senza prove, in udienze dove l’avvocato della difesa ha solo due minuti per l’arringa. I detenuti malati restano ammanettati anche durante le terapie e gli esami in ospedale.

A dicembre invece è stato condannato a 27 anni di prigione un altro giornalista, nel frattempo scappato in Germania: l’ex caporedattore di «Cumhuriyet», Can Dündar, per aver svelato in un articolo i traffici di armi dall’intelligence di Ankara ai jihadisti combattenti in Siria. Il reato è svelamento di segreti di Stato. Una sentenza tragicomica: il via vai di camion con armamenti per l’Isis era già noto alle popolazioni di confine e Dunder ha avuto il merito di certificarlo con tanto di documenti. Ci sono poi le testimonianze dei «foreign fighters» schierati con lo Stato islamico, i combattenti rientrati nei Paesi di residenza in Europa che negli interrogatori hanno dichiarato di essere passati senza ostacoli dalla frontiera turco-siriana. Erdogan sostiene gli jihadisti in chiave anti Assad, presidente della Siria. E tuttora bombarda il nord dello Stato confinante, abitato dai nemici curdi per liberare l’area e occuparla con i profughi siriani riparati in Turchia, accoglienza per la quale l’Ue ha versato ad Ankara 6 miliardi di euro. Ma il Sultano continua a far bombardare anche il confine sud-orientale per colpire ancora i curdi annullando pure la presenza millenaria di villaggi cristiani. Almeno altri 25 sono stati svuotati invece nel nord dell’Iraq (Kurdistan) a seguito di attacchi sempre turchi. Né si può poi tacere sulla riconversione della storica Basilica di Santa Sofia e della chiesa-museo di San Salvatore in Chora in moschee, senza nemmeno lo scrupolo di trattare con la controparte.

Ma il Sultano non si ferma qui. Ha un sogno nel cassetto, mai accennato dai grandi media: realizzare una confederazione di 61 Paesi islamici con a capo Ankara. La presa della Libia, per ora in coabitazione con la Russia, rientrerebbe in questo piano. Non dimentichiamo che la Turchia è membro della Nato: è accettabile che violi così brutalmente i diritti umani e persegua interessi che non collimano, quando addirittura si oppongono, a quelli dell’Alleanza atlantica? Dare ossigeno all’autoritarismo di Ankara e alla sua strategia imperiale è autolesionismo.

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