Non possiamo permetterci di perdere le industrie

ECONOMIA. Nel Regno Unito, la multinazionale indiana Tata Steel ha appena annunciato lo spegnimento degli ultimi due altiforni attivi nel Paese e la conseguente soppressione di 2.500 posti di lavoro.

Dietro la decisione, ha fatto sapere l’azienda, ci sono motivi finanziari e ambientali. Impianti come questo di Port Talbot, in Galles, sono stati un simbolo dell’industria siderurgica inglese che nei primi anni ’70 del XX secolo produceva 30 milioni di tonnellate d’acciaio e dava lavoro a 320.000 persone, mentre oggi di acciaio ne produce 6 milioni di tonnellate e di lavoratori ne impiega 30.000. L’industria, in cinquant’anni, cambia ed evolve, è fisiologico; come pure è doveroso che i Paesi avanzati si specializzino in attività innovative, magari lasciando quelle più «mature» ad altri Paesi meno sviluppati. Eppure quanto sta accadendo all’industria europea in molti casi non sembra seguire questo percorso di sviluppo virtuoso.

I dati congiunturali, innanzitutto, non sono rassicuranti. Alla fine del 2023, la produzione industriale ha segnato un andamento negativo in quasi tutto il continente europeo. Ma soprattutto sono alcune tendenze profonde a far suonare un campanello d’allarme. Lo scorso anno la Germania, prima potenza manifatturiera europea, è scivolata in recessione e quest’anno il suo Pil dovrebbe crescere appena dello 0,7%. L’Italia è tra i primi Paesi a risentirne, a partire dalla Lombardia dove sta mutando la geografia industriale. Per la prima volta dopo molti anni, infatti, come spiegato dal presidente di Assolombarda Alessandro Spada, la Germania non è più il primo Paese destinatario dell’export delle aziende del perimetro Milano-Monza Brianza-Lodi, ed è stata superata dalla Francia. «Non solo subiamo un calo di competitività perché Germania, Francia e Spagna aiutano le loro aziende con i prezzi dell’energia - aveva detto qualche settimana fa ad HuffingtonPost Paolo Agnelli, patron dell’omonima azienda bergamasca di metalli e alluminio -. Anche il rallentamento dell’economia tedesca sta causando una forte riduzione del nostro export». E Franco Gussalli Beretta, presidente di Confindustria Brescia, al Corriere ha rivelato che il 41% delle imprese associate registra un calo delle merci vendute in Germania, lanciando per questo un originale appello a diversificare dalle produzioni destinate all’auto tedesca.

Proprio la parabola dell’automotive europeo, d’altronde, aiuta a comprendere che la flessione alla quale assistiamo potrebbe non essere passeggera. Anche su queste colonne, si è già ragionato sui rischi legati a una transizione all’auto elettrica decisa nel nostro continente con piglio eccessivamente dirigista e senza riporre fiducia nelle capacità adattive delle aziende. Allo stesso tempo la classe dirigente tedesca ha manifestato un eccesso di hybris, forse convinta che un robusto legame commerciale con Pechino e una radicata presenza di fabbriche tedesche nell’ex Impero di Mezzo la mettessero al riparo dalla concorrenza cinese nel mezzo di una transizione ecologica troppo repentina. Adesso si scopre che i marchi «made in Deutschland» perdono quote di mercato in Cina e che, negli ultimi tre anni, il numero delle principali aziende tedesche - con almeno 20 dipendenti - fornitrici di componentistica automotive è sceso da quasi 700 a 615, con 30.000 posti di lavoro persi. Il tutto mentre le vendite di auto elettriche cinesi schizzano verso l’alto, in Cina come in Europa, e perfino un innovatore come Elon Musk consiglia di valutare l’introduzione di dazi commerciali per evitare danni irreparabili.

Infatti se gli Stati Uniti hanno «i magnifici Sette» - Alphabet, Amazon, Apple, Microsoft, Meta, Nvidia e Tesla -, in Cina si parla dei settori oggi trainanti come de «i nuovi Tre»: le auto elettriche, le batterie agli ioni di litio, le celle dei pannelli fotovoltaici. Secondo alcune stime, è grazie al loro sviluppo che Pechino ha raggiunto lo scorso anno un tasso di crescita del 5,2%; senza, si sarebbe fermata al 3%. Una tendenza travolgente, specie se confrontata alla nostra flemma industriale. Le imprese europee, secondo il centro di ricerca Trendeo, hanno una «capacità di investimento» equivalente a quelle americane - 2.172 miliardi di dollari dal 2016 al 2023 per le prime a fronte di 2.245 miliardi per le seconde - tuttavia investono più all’estero che nella stessa Europa. Negli ultimi sette anni, soltanto un terzo degli investimenti di tali aziende si è realizzato nel Continente in cui sono nate. Perché, dunque, l’Europa è diventata così poco ospitale per l’industria? E soprattutto: possiamo permettercelo?

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