Occidente, esame
di coscienza

Non tutti ricordano il giorno in cui fu ucciso John Fitzgerald Kennedy o in cui l’uomo sbarcò sulla Luna. Tutti, invece, sanno perfettamente che cosa stavano facendo o con chi erano l’11 settembre del 2001, quando 19 kamikaze agli ordini di Osama bin-Laden dirottarono quattro aerei negli Stati Uniti e li usarono per uccidere 2.977 persone innocenti. Gli uomini e le donne che lavoravano nelle Torri Gemelle o nel Pentagono o che viaggiavano sull’aereo che poi precipitò in Pennsylvania erano originari di 90 Paesi diversi. Al-Qaeda aveva già colpito in Africa, in Asia e in Medio oriente, ma quella fu la prima strage davvero globale. Anche per questo ci riguarda tutti, e ci riguarderà fino a quando qualcuno ne avrà memoria.

Questa, però, è anche la ragione per cui quei morti, oltre che con il cuore, vanno onorati con la testa. In questi giorni, in queste ore, siamo sommersi dalla commozione e anche dalla retorica. Ma resta scolpita nella pietra la beffa atroce dei talebani che proprio l’11 settembre, vent’anni dopo, inaugurano un Governo formato da dinamitardi e terroristi, tutti amici o ex collaboratori di Osama bin-Laden. Quegli stessi talebani che attaccammo il 7 ottobre del 2001 proprio per rendere giustizia alle vittime, per stroncare il terrorismo e per impedire che dai rifugi afghani partissero altri attacchi contro civili inermi.

Per onestà e per rispetto verso le vittime di allora non possiamo non chiederci: che cosa non ha funzionato? La domanda giusta, in realtà, sarebbe un’altra: abbiamo davvero combattuto il terrorismo? Pensiamoci: per anni, un pugno di capi jihadisti ha tenuto in scacco un’alleanza formata da tutti i Paesi più potenti dal punto di vista politico, militare, tecnologico e finanziario. Non solo: tra il 2001 e il 2014 il terrorismo islamista è parso a tratti dilagante, responsabile di un numero sempre crescente di attacchi e di morti. Gli assassini che avevano colpito gli Usa colpiscono anche in Europa (in Spagna, Regno Unito, Francia) e non smettono di uccidere sul loro terreno: nel solo 2015, il solo Isis uccide più di 6 mila persone in atti di puro terrorismo, e più di 20 mila sul campo di battaglia, da loro costellato di fosse comuni.

E la lotta al terrorismo? Purtroppo era diventata in fretta un’altra cosa. La guerra non andrebbe mai considerata un mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, lo insegna anche il Catechismo della Chiesa cattolica. Ma nel 2001 eravamo stati attaccati, l’Afghanistan non era solo «governato» dall’oscurantismo talebano ma era il nido delle vespe di Al-Qaeda. Anche il Catechismo, purché si tratti di difendersi e a precise condizioni, contempla la guerra di difesa. Però nel 2003 arriva una guerra di offesa, l’invasione dell’Iraq di Saddam Hussein, che era stata motivata con un «asse del male» che, secondo il presidente Usa George W. Bush, annoverava anche l’Iran e la Corea del Nord (più tardi fu aggiunta la Siria). Nessuno di questi Paesi aveva a che fare con Al-Qaeda e i suoi attacchi.

Ecco allora che la guerra al terrorismo diventa progetto politico, ristrutturazione di intere regioni del globo a uso e consumo delle potenze occidentali. E qui cominciano i problemi, qui si capisce perché la guerra al terrorismo non la vinciamo. Le nostre azioni distruggono l’organizzazione sociale di Stati con regimi orribili ma in qualche modo funzionanti (Iraq, Libia, Siria) e li consegnano al caos e alla violenza. Economie modeste ma autosufficienti vengono cancellate dall’oggi al domani. Apriamo nuovi spazi agli agenti del terrore. Ci alieniamo il favore delle popolazioni. E nessuno dei nostri progetti di «nation building» (o, come si usa dire, di esportazione della democrazia) trova realizzazione. Fino, appunto, al ritorno in pompa magna dei talebani in quell’Afghanistan dove tutto era cominciato.

È giusto allora, dopo vent’anni come questi, ritornare alle Torri Gemelle, a coloro che saltavano dai grattacieli per non bruciare vivi, ai volti coperti di polvere, alle candele alle finestre, allo strazio dei familiari. Perché quella parte nobile non dev’essere dimenticata e deve al contrario fare da motore al nostro ripensamento, a un esame di coscienza non più rinviabile. Che cos’è l’Occidente, che cosa vuol fare della propria civiltà e della propria potenza, come vuole parlare alle altre culture? E se provassimo finalmente a rispondere?

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