Orientare i giovani, l’algoritmo è un mezzo

ITALIA. La scorsa settimana su questo giornale si è dato risalto a un interessante progetto di orientamento scolastico che un pool di scuole della nostra Provincia sta conducendo grazie all’ausilio dell’intelligenza artificiale.

È un’iniziativa encomiabile a cui, tuttavia, va affiancata anche qualche riflessione. La proposta ha indubbiamente merito, perché l’aggiunta di nuovi strumenti di orientamento per i giovani in un Paese con un elevato tasso di abbandoni scolastici e universitari può aiutare gli interessati e le loro famiglie a prepararsi al futuro evitando scelte fondate su limitata informazione, su emotività e su condizionamenti impropri. Il tutto sulla base di esperienze passate che vengono codificate dagli algoritmi e messe a confronto con le caratteristiche rilevate dagli studenti coinvolti.

C’è, tuttavia, una seconda ragione che suggerisce di aprire una riflessione più ampia sul tema. Il lavoro delle scuole coinvolte nella sperimentazione evidenzia in modo concreto la diffusione accelerata degli algoritmi a supporto delle scelte individuali. Non si tratta solo di ottimizzazione tecnica (la guida autonoma, la lettura di una radiografia o di una Tac) - benché anche in questi casi siano molti i temi da dibattere - ma si arriva a incidere sulle scelte di vita future delle persone. Se la comprensione dello strumento è approssimativa, si rischia che tali decisioni vengano prese con minore, e non maggiore, consapevolezza. Basti pensare al dibattito in corso sul ruolo dell’intelligenza artificiale nel mitigare o nel far proliferare le discriminazioni, a causa del fatto che gli algoritmi tendono a replicare i modelli con i quali vengono istruiti.

L’iniziativa offre dunque l’occasione di aprire una discussione per nulla banale e, insieme alla sperimentazione, occorrerebbe preparare i ragazzi all’uso intelligente dell’intelligenza artificiale. Che significa un uso strumentale e non finale, perché l’utilizzo dello strumento deve essere un mezzo e non il fine. Se gli algoritmi finissero per scegliere per noi e su di noi, dietro di loro sarebbero i progettisti o gli ideatori a decidere, ovvero altri individui. Diventeremmo così soggetti passivi e quasi robotizzati, alla stregua di batterie di polli. La nostra vita sarebbe l’insieme di scelte guidate dalla probabilità, cioè dal caso più frequente che viene applicato in modo praticamente deterministico al nostro futuro.

In sintesi, tutte le volte che una nuova tecnica ci viene offerta in uso (si pensi solo alla telefonia mobile e ai social media) dobbiamo accrescere non tanto e non solo la nostra destrezza applicativa, ma anche e soprattutto la consapevolezza sulle origini e sulle potenzialità anche negative della stessa.

Diversamente, ricordando il «nostro» filosofo Mauro Ceruti, la tecnoscienza aprirebbe la strada a un determinismo sociale che non è più in auge da decenni nemmeno nelle scienze fisiche. Sarebbe come se ritornassimo alla fisica precedente le scoperte di Einstein e Heisenberg, così necessarie per studiare l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande e avere al tempo stesso una visione d’insieme della natura. Lo faremmo non più nei confronti della materia ma della nostra vita.

Bene, dunque, il nuovo che avanza nella scienza e nella tecnica ma con gli occhi aperti e con la consapevolezza che un incontro non prevedibile, una parola di conforto, un gesto di altruismo, una passione improvvisa, una chiamata inattesa, possono battere tutti i modelli nel renderci autenticamente felici delle scelte fatte e della vita come dono ricevuto.

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