Paradisi fiscali
Primo round «sleale»

Il tribunale dell’Unione Europea con sede in Lussemburgo ha dato ragione a Apple. La richiesta di rimborso di 14,3 miliardi - interessi compresi - avanzata dalla Commissione nei confronti del produttore di iPhone è nulla. Per la commissaria danese alla concorrenza Margrethe Vestager un’umiliazione.
Tutti sanno che il gigante di Cupertino paga in Irlanda una percentuale inferiore all’1% e dal 2014 dello 0,05% per profitti realizzati in Europa. Si tratta quindi di dimostrare che il reddito di Apple rappresenta il valore delle attività realmente portate avanti dalle filiali irlandesi e come tali suscettibili di un’imposizione fiscale non lesiva della concorrenza rispetto agli altri Paesi europei. Dublino non vuole il risarcimento per tasse arretrate richiesto da Bruxelles, soldi che entrerebbero direttamente nelle casse del fisco irlandese. L’uovo è d’oro e può attirare ma è pur sempre la gallina che lo produce.

L’Irlanda rifiuta il compenso consapevole che se il carico fiscale in Europa diventa uniforme finisce la cuccagna. Salta l’impianto sul quale l’Irlanda ha costruito la sua ripresa dopo la crisi immobiliare del 2008. L’isola era a un passo dal default, ha chiesto l’assistenza finanziaria di Eurogruppo e la Troika ha imposto le sue regole di lacrime e sangue. Dal 2014 viaggia in attivo ed è diventata meta preferita delle grandi multinazionali. Compito della Commissione era stanarle. Ma non tutti sono Mario Monti che da commissario alla concorrenza nel 2004 fece pagare a Microsoft una multa da 497 milioni di euro. Il difetto sta nel desiderio politico di condanna morale dei Paesi a tassazione agevolata. Missione giusta nei principi ma che deve essere documentata nei fatti. Il tribunale europeo ha dato prova di equidistanza e distinto fra impegno politico-morale e contestazione giuridica.

L’errore o passo falso della commissaria ha tuttavia delle ripercussioni politiche. Non sono pochi anche al Parlamento europeo quelli che portano avanti gli interessi dei grandi gruppi. L’offensiva condotta dal commissario Gentiloni contro gli Stati accusati di concorrenza fiscale sleale subisce una battuta d’arresto. Nella lotta tra Nord e Sud Europa è questa una battaglia strategica. La Commissione contesta ai Paesi Bassi quanto segue: «Correggere pienamente le caratteristiche che agevolano la pianificazione fiscale aggressiva» e poi «garantire la vigilanza e l’applicazione efficace del quadro antiriciclaggio». Questa è la pistola che l’Italia potrebbe mettere sul tavolo in sede di trattativa per il Recovery Fund. Ha un alleato nella Commissione impegnata ad attivare una clausola del Trattato che permette di aggirare il diritto di veto nelle decisioni di contenuto fiscale. Dopo le dimissioni del presidente di Eurogruppo Mario Centeno il fronte del Nord è riuscito ad imporre come suo successore il ministro delle Finanze irlandese.

La candidata spagnola Ana Calvino sostenuta anche dall’Italia ha dovuto lasciare il passo a Paschal Donohoe. La sua prima dichiarazione è stata di avversione verso qualsiasi modifica di legislazioni fiscali agevolate. La sentenza del Lussemburgo cade quindi in un momento delicato. Anche in Austria conti offshore e segreto bancario sono di casa. Per poter competere con questi sistemi la prima cosa è fare pulizia in casa propria. I ritardi della giustizia italiana sono proverbiali e invogliano gli operatori economici verso altri lidi. Lo stesso dicasi per la burocrazia. Tutti mali che nascono da un rapporto Stato-cittadino viziato dalla sfiducia. La verità è che se in Italia è l’evasione fiscale illegale ad essere diffusa, in alcuni Paesi del Nord è quella legale che prevale. Sono le differenze culturali il vero problema europeo. Ma l’evasione resta evasione.

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