Pensioni, rischio
di altri sommersi

«Io non concordavo con Quota 100 e non verrà rinnovata, ora occorre assicurare una gradualità nel passaggio a quella che era una normalità». Così il premier Mario Draghi dopo il Consiglio dell’Unione europea. C’erano molte attese sulla riforma «epocale» delle pensioni (talmente «epocale» che ogni Governo se ne fa una). Si sperava che si aprissero le maglie e si abbassasse il numero dei contributi per ritirarsi dal mondo del lavoro e invece le maglie si sono ristrette. Il Governo propone una Quota 102, che diventa addirittura 104 nel 2022, ritardando ancor più l’età pensionabile. Eppure si erano fatte ipotesi molto più generose, la primavera scorsa era circolata addirittura quella di un monte contributivo di soli 37 anni o di un’età minima di 62 anni a prescindere dai contributi. La speranza era duplice, non riguardava solo i beneficiati ma anche quella generazione di giovani che aspetta sulla soglia in attesa di entrare nel mercato del lavoro e farla finita con i «lavoretti» a tempo determinato. Inoltre vi era il problema di un’enorme massa di lavoratori non più giovani che difficilmente potrebbero tornare nel sistema del mondo del lavoro dopo lo sblocco dei licenziamenti. E invece evidentemente si ritiene che tutto questo non avverrà o semplicemente non lo si vuole vedere.

La faccenda naturalmente non è finita perché il Governo dovrà vedersela con le parti sociali, con l’opposizione e con l’opposizione dentro la maggioranza (Salvini, per intenderci, strenuo difensore della Quota 100, ma anche Leu, in una battaglia, quella per le pensioni, in cui gli opposti sono contigui. Ma forse anche all’interno degli altri partiti ci saranno sorprese). Se le cose restassero come annunciato dal ministro dell’Economia Franco e dal premier ci sarebbe una nuova generazione di sommersi, come ai tempi degli esodati della Fornero, dieci anni fa. Nella fattispecie i più penalizzati sarebbero i nati negli anni ’60, i cosiddetti babyboomers, i più colpiti dagli «scaloni», mentre i salvati sarebbero i nati nel ’58, con 37 anni di contributi, cui si dà la possibilità di usufruire della Quota 102 e 104.

Da gennaio 2022, terminata dunque la «sperimentazione» (fortemente voluta dal primo governo Conte, quello giallo-verde Cinque Stelle-Lega) della pensione anticipata con la Quota 100, tornerà il temuto «scalone» anagrafico che, dai 62 anni di età e 38 di contributi (sommati fanno 100), impone bruscamente un minimo di 67 anni di età per la pensione di vecchiaia e almeno 42 anni e 10 mesi di contributi (uno in meno per le donne) per quella anticipata (detta anche di anzianità). L’anno prossimo tutti coloro che avrebbero potuto andare in pensione con 62 anni e 38 anni di contributi non potranno più farlo. Ma non potrebbero lasciare il lavoro neanche con Quota 104 nel 2023 (66 anni di età e 38 di contributi): come detto dovrebbero attendere i 67 anni di età o i 42-43 anni e passa di contributi. Dal lato opposto i nati nel ’58 con 37 anni di contributi a oggi, che nel 2022 avrebbero potuto andare in pensione con Quota 100 potranno ugualmente andare in pensione con Quota 102 (quando compiranno 64 anni di età e 38 di contributi).

Inoltre il Governo sta per intonare il de profundis anche per l’Opzione donna, la qual cosa metterebbe fine alle speranze delle lavoratrici sulla soglia dei sessant’anni, che contavano di cambiare vita il prossimo anno. Infine, tra i mille spifferi che circondano questa riforma «dragoniana» (con la g) si parla di una piccola via d’uscita per non creare troppi esodati: la via d’uscita potrebbe passare attraverso una transizione rapida di due anni, offrendo cioè per il 2022 la possibilità di pensionamento con 64 anni d’età e 39 anni di contribuzione per i lavoratori in parte o totalmente «retributivi». In soldoni, si tratta di una Quota 103 di fatto, una sorta di via di mezzo per i soggetti interamente contributivi. Di più al momento non c’è e vien da scommettere che non mancheranno i mal di pancia anche in Parlamento. Quanto ai sindacati, sono già sul piede di guerra.

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