Presidenzialismo, riforma e rischi

Italia. Instabilità dei governi e deficit decisionale: queste sarebbero le premesse che giustificherebbero, per la presidente Meloni, il cammino di riforma verso il (semi)presidenzialismo. Nella scorsa legislatura, invero, la leader di Fratelli d’Italia, dall’opposizione, aveva piuttosto lamentato l’avvento, sotto la guida di Draghi, di un presidenzialismo di fatto, privo però della legittimazione popolare.

In attesa di meglio conoscere metodo e contenuti di questa riforma, per ora avvolta da gran confusione, val la pena evidenziare alcuni elementi di criticità della situazione attuale per cercare di riflettere se il presidenzialismo possa essere la risposta più efficace. Va indubbiamente riconosciuta una netta trasformazione del ruolo e del peso del presidente della Repubblica nel contesto delle ricorrenti (e ormai strutturali) crisi degli ultimi anni, nella direzione di una centralità che è davvero al limite delle attribuzioni, per quanto elastiche siano, che la Costituzione gli attribuisce. In assenza di un interlocutore affidabile nei Governi, per la loro debolezza endemica, il presidente della Repubblica è divenuto di fatto il riferimento stabile attraverso cui dare fluidità e continuità al raccordo politico tra il nostro Paese e la sfera sovranazionale (europea) e internazionale (atlantica) a cui l’Italia appartiene. Le nomine di Monti e poi di Draghi, nonché l’opposizione alla nomina a ministro dell’Economia di Paolo Savona sono stati i passaggi più lampanti di questa evoluzione.

La trasformazione del ruolo del presidente è dunque conseguenza di uno svuotamento sostanziale e critico degli spazi di autonoma definizione dell’indirizzo politico nazionale in ambiti fondamentali: dalla politica estera, ormai del tutto subalterna a un rinvigorito atlantismo (più che a un’Europa davvero fragile in questa sede); a quella economica, in forza della situazione debitoria italiana e della condizionalità del sostegno finanziario ricevuto. La forte continuità tra il Governo Meloni e il precedente Draghi è l’epifenomeno di questo solco tracciato. Fa pensare che di fronte a questo svuotamento, di cui l’Agenda Draghi è una sorta di icona, si ragioni di presidenzialismo: siamo al cospetto di un incerto tentativo di riequilibrare i pesi attraverso il rafforzamento dell’unitarietà della volontà politica nazionale? O non si rischia piuttosto di procedere a una riforma paradossalmente funzionale a semplificare (e cioè a oliare) la cinghia di trasmissione dalle sedi sovranazionali (davvero decidenti) a quelle interne, sostanzialmente esecutive?

Anche sul piano politico interno la riforma solleva qualche interrogativo. Da tutti i sondaggi emerge il livello di quasi solitaria fiducia, agli occhi dei cittadini, di cui gode il presidente della Repubblica tra le istituzioni nazionali, rispetto al discredito, ad esempio, che avvolge Parlamento e partiti. Siamo sicuri che sia una buona idea macchiare di partigianeria - con un’elezione diretta fatalmente divisiva - questa carica, privandosi di uno dei residui elementi di ricomposizione della dialettica politica nel nostro Paese?

Si capisce bene il tentativo di ripoliticizzare dal basso un ordinamento, come quello repubblicano, a vitalità democratica francamente estenuata. La soluzione rischia però di essere inefficace e costituzionalmente discutibile. Inefficace, perché non affronta il nodo davvero problematico dello svuotamento eteronomo (dall’alto) dell’autonomia politica nazionale, per sciogliere il quale occorrerebbe (eccome!) una riforma dell’Unione europea, di cui non c’è traccia. Discutibile perché, per la Costituzione, la vitalità democratica deve venire sì dal basso, ma da un popolo pluralisticamente articolato e attivo mediante le autonomie sociali e territoriali, e non da meccanismi di delega a poteri solitari. Riaprire i canali istituzionali - molti dei quali oggi occlusi da partiti oligarchici - di una plurale partecipazione popolare è l’unico strumento per ridare senso e vitalità alla democrazia.

© RIPRODUZIONE RISERVATA