Processi, se la difesa
vale meno dell’accusa

Nei giorni scorsi è passata inosservata un’incredibile sentenza della terza sezione della Corte di Cassazione: stabilisce che nel processo la perizia del consulente del pubblico ministero vale più di quella della difesa, rimettendo così in discussione i principi della parità delle parti e del giusto processo. La sentenza riguarda il ricorso respinto di una donna barese condannata in Appello per avere demolito e poi ricostruito un fabbricato in una zona con vincolo paesaggistico. Gli avvocati avevano presentato ricorso sostenendo, sulla base di una consulenza di parte, che l’opera rientrava nella categoria degli interventi di manutenzione straordinaria o, al più, di restauro e risanamento conservativo. Secondo la difesa, nel condannare la donna i giudici non avevano prestato alcuna attenzione alla perizia di parte, preferendo aprioristicamente quella disposta dal pm.

La Corte ha però dichiarato inammissibile il ricorso affermando - al di là del merito della vicenda, è questo il punto che conta e sorprende - che le conclusioni tratte dal consulente del pm, «pur costituendo anch’esse il prodotto di un’indagine di parte, devono ritenersi assistite da una sostanziale priorità rispetto a quelle tratte dal consulente tecnico della difesa». Secondo gli ermellini, infatti, il pm, «pur nell’ambito della dialettica processuale, non è portatore di interessi di parte» come gli avvocati, e dunque le valutazioni del proprio consulente «rivestono una valenza probatoria non comparabile a quella dei consulenti delle altre parti del giudizio». Ciò sarebbe confermato dall’obbligo per il pm di ricercare anche prove a favore dell’indagato, stabilito come pochi sanno dall’articolo 358 del Codice di procedura penale, e dal fatto quindi che la pubblica accusa avrebbe «per proprio obiettivo quello della ricerca della verità».

Ma nella realtà raramente questo articolo del Codice viene applicato. Basta leggere gli articoli dei giornali sulle inchieste e valutare come viene svolto spesso il ruolo da parte del pm: senza accertamenti a favore della persona indagata, mira non a «ricercare la verità», ma piuttosto conferme alle proprie tesi accusatorie. Nel processo penale all’italiana (quello formalmente accusatorio, ma nella sostanza segnato da profondi residui inquisitori) l’accusa continua a rivestire una posizione di superiorità rispetto alla difesa, a dispetto del principio di parità delle parti. L’articolo 111 della Costituzione dice tra l’altro: «La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata».

L’Unione camere penali ha accolto con ovvio sdegno la sentenza, evidenziando tra l’altro che «al contrario, nel proprio sforzo confutativo della tesi accusatoria è assai frequente che l’imputato, soprattutto se è in grado di sostenerne le spese, nomini consulenti più qualificati, e spesso di gran lunga, di quelli nominati dalla procura».

Se i pm raccogliessero prove anche a tutela dell’indagato, probabilmente assisteremmo a un numero inferiore di rinvii a giudizio. Da uno studio dell’Unione delle camere penali con Eurispes emerge che sul totale dei processi penali che si concludono con una sentenza (il 29,5%), nel 60,6% dei casi si tratta di condanna, nel 21,9% di assoluzione e nel 14,9% di estinzione del reato. Tra le sentenze di proscioglimento per estinzione del reato, ben il 45,5% è per prescrizione (che non equivale a una condanna), il 32,8% per remissione di querela, mentre solo l’8,6% per oblazione (estinzione del reato limitata alle contravvenzioni). Ora vedremo che effetti avrà la sentenza della Cassazione sui processi.

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