Quirinale, in vista del voto si cerca l’opposizione.Il gioco di sponda e i rischi

Chi avrebbe mai immaginato, anche solo pochi anni fa, che ad una festa della destra (che più destra non ce n’è) facessero la fila i segretari dei partiti dell’arco costituzionale per dialogare con la sua leader? Negli anni ’60 (eravamo ormai a un ventennio di distanza dalla caduta del fascismo) vigeva ancora il bando decretato alla fine della guerra mondiale dai partiti antifascisti nei confronti di quelli che erano considerati – e si consideravano - gli epigoni dei «ragazzi di Salò». Alle tribune politiche del tempo non c’era alcun partito democratico che accettasse di partecipare a un dibattito, se fosse stato presente un esponente del Msi.

C’è stato sicuramente un motivo contingente che ha consigliato a tutti i partiti di non disertare la festa di Atreju. Premeva l’approssimarsi dell’elezione del Capo dello Stato. La Meloni è pur sempre la leader dell’unica forza d’opposizione, la voce al momento più autorevole del centrodestra, ma soprattutto è la capa dell’unico partito non squassato dalle correnti, perciò in grado di garantire che tra i suoi parlamentari non si conteranno franchi tiratori al momento del voto per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Una garanzia, questa, che vale tanto oro nelle trattative politiche.

C’era, si diceva, un motivo contingente, ma c’era anche un interesse di molti a intavolare un dialogo con la Meloni. Salvini sente il fiato sul collo della sua concorrente alla guida del centrodestra. Non può permettersi di disertare alcun appuntamento in cui tema di perdere altre posizioni. Sintomatico il fatto che abbia deciso di stoppare la candidatura di Draghi al Colle. Ufficialmente, perché considera Super-Mario insostituibile a Palazzo Chigi, di fatto perché gli preme di scongiurare una crisi di governo che inficerebbe la linea governista adottata dalla Lega.

Da parte sua, Renzi aspira a replicare il ruolo di king-maker che lo portò sette anni fa a imporre il nome di Mattarella. Anche Letta ha scoperto l’utilità di coltivare un buon rapporto con la Meloni. Meglio trattare - deve aver pensato - con la titolare dell’unica forza d’opposizione che non con Salvini, alleato poco gradito di una coalizione sull’orlo di una crisi di nervi. Unisce entrambi il comune favore a una logica bipolare che non dia spazio alle forze di centro.

Sta probabilmente proprio in questo punto la ragione vera che ha spinto Letta a compiere un gesto, insolito per i leader del centrosinistra, che suona come piena legittimazione della destra ex neofascista. Il disegno sottostante è di mettere fuori gioco i partiti populisti (la Lega di Salvini e i 5 Stelle duri e puri) per consolidare una stabilizzazione del sistema politico intorno a due assi (FdI appunto e Pd). Essi a questo punto diventerebbero i veri assi portanti di una consolidata (finalmente) democrazia dell’alternanza.

Il disegno è chiaro, la sua realizzabilità però è incerta. La Meloni ha fatto la sua fortuna con la parola d’ordine del patriottismo, versione edulcorata del sovranismo, che sa risultare indigesto ai vertici di Bruxelles. È uno slogan fortunato, ma resta indeterminato. Meloni non può sfuggire alla sfida di riempire di contenuti i suoi slogan.

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