Referendum e riforme
La giustizia sia giusta

Dai tempi di «Mani pulite», nella prima metà degli anni ’90, il rapporto tra politica e magistratura è tormentato. Ogni tentativo di riforma della giustizia genera polemiche e frizioni. Eppure proprio il bilancio finale della grande inchiesta sui partiti della Prima Repubblica avrebbe meritato una riflessione: su 4.520 persone finite nelle mani del pool, e su 3.200 rinviati a giudizio, le condanne furono 1.281 (965 per patteggiamento) e 1.111 le assoluzioni e i proscioglimenti. Meno della metà dei processati è stata condannata, quasi altrettanto assolta. Oggi il 50% dei processi penali di primo grado si conclude con l’assoluzione. Nella riforma Cartabia è previsto che il pm possa chiedere il rinvio a giudizio dell’indagato solo quando gli elementi acquisiti consentono una ragionevole previsione di condanna. Ma ora in campo non c’è solo la riforma della Guardasigilli. La Cassazione ha dato via libera ai sei referendum promossi dalla Lega e dal Partito Radicale. Riguardano la riforma del Csm, la responsabilità diretta dei magistrati, l’equa valutazione degli stessi, la separazione delle carriere, i limiti agli abusi della custodia cautelare e l’abolizione della legge Severino.

I problemi della giustizia sono noti: riforma e consultazione referendaria cercano, ognuno a loro modo, di dare una risposta. Il numero di cause pendenti ogni anno in Italia, per processi civili e penali, supera di gran lunga quello della maggior parte degli altri Stati europei. Siamo al 20° posto nell’Ue per numero di giudici ogni 100mila abitanti e abbiamo il maggior numero di avvocati (quattro ogni mille italiani). Al 19° invece per durata stimata dei procedimenti (sette anni, tre in Francia).

Ci sono due aspetti poco dibattuti ma importanti perché toccano la vita e la libertà delle persone. In Italia l’avviso di garanzia viene percepito da una parte della classe politica e dell’opinione pubblica già come condanna, mentre per l’articolo 27 della Costituzione si è colpevoli solo dopo la sentenza definitiva, prevalendo fino ad allora la presunzione d’innocenza. Un male che nasce da strumentalizzazioni, assenza di cultura giuridica e chiama in causa il ruolo deleterio dei media.

Il secondo tema, poco o per nulla dibattuto, ha stravolto l’esistenza di almeno 30 mila persone: dal 1992 al 2020 hanno ottenuto la riparazione per ingiusta detenzione. Circa mille all’anno, per una spesa complessiva di 870 milioni di euro a carico dello Stato. Ma nella realtà sono molti di più, perché si preferisce rinunciare a pochi soldi piuttosto che tornare davanti a un giudice per chiederli. Il 77% di chi, arrestato ingiustamente, domanda l’indennizzo non lo ottiene perché, secondo le Corti d’Appello, avrebbe «concorso con dolo o colpa grave all’errore del magistrato». Ma chi è così autolesionista da prendersi gioco di un pubblico ministero per farsi mettere in galera? Nessuno. Però leggendo le ordinanze di rigetto si scopre che le Corti respingono le richieste quando il detenuto si è avvalso della facoltà di non rispondere: così facendo, concorrerebbe all’errore della toga. Eppure quella facoltà è un diritto dell’interrogato.

Tra i magistrati c’è chi giudica i numeri sull’ingiusta detenzione «fisiologici», invece di andare a fondo di un fenomeno che ferisce la vita delle persone: rovinate nella reputazione, spesso perdono lavoro e legami affettivi. Tanto il costo dell’errore lo paga lo Stato. Il ministero della Giustizia negli ultimi anni è stato inerte: nel periodo 2016-2018 ha istruito solo tre fascicoli disciplinari, che ha poi archiviato. Nel 2019 zero.

Ogni anno vengono arrestate in Italia circa 50mila persone. Ma, secondo le norme vigenti, il 20% di queste non avrebbe dovuto essere privato della libertà. Abbiamo bisogno di una giustizia davvero giusta.

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