Regionalismo
Stato in affanno

La difficoltà di frenare l’espandersi della pandemia sta aggrovigliando sempre di più il rapporto tra Stato, regioni ed enti locali. Gli ondeggiamenti nelle decisioni, le prese di distanza tra governo e presidenti delle regioni, le polemiche politiche tra le forze politiche e persino al loro interno, sono sintomi di un sistema al capolinea. Soltanto modifiche profonde nell’intelaiatura istituzionale, radicali ricambi nel personale politico, una lotta intransigente contro clientelismi di ogni natura, il tenace perseguimento dell’interesse generale al di sopra di quello delle singole parti politiche potranno evitare un ulteriore scivolamento della credibilità di chi è chiamato a rappresentare i cittadini, a livello statale come a quello locale.

Il Covid ha fatto da acceleratore della crisi di un assetto politico/istituzionale gravato da profondi scompensi e da elementi di deflagrazione della disgregazione di valori che ha investito da decenni il tessuto sociale. Di tali falle, tanto la letteratura sociologica e politologica quanto gli stessi media (a iniziare dalla stampa), hanno dato da lungo tempo autorevole testimonianza. Ciò non sembra essere servito a molto, nel senso che la cattiva stampa, nonché improvvisati esperti del niente reclutati nei talk show, sono riusciti a inquinare l’informazione all’opinione pubblica e a mettere le ali a forme di comunicazione politica impermeabile ad ogni senso del limite.

I fattori di squilibrio del nostro sistema politico/istituzionale vengono da lontano. Dall’Unità d’Italia il dibattito tra sostenitori del centralismo e propugnatori di un sistema fondato sulle autonomie locali è ininterrotto. All’articolo 5 la Costituzione «riconosce e promuove le autonomie locali»; a loro volta le disposizioni transitorie VIII e IX prevedevano l’istituzione delle regioni in tempi stretti. Ciò avvenne con molto ritardo e la loro nascita nel 1970 fu salutata come il completamento del modello istituzionale immaginato dall’Assemblea Costituente. Ma i fatti hanno dimostrato come il disegno originario abbia trovato un’attuazione particolarmente disomogenea. Gli squilibri socio-economici tra le regioni non si sono accorciati, bensì si sono andati acutizzando sempre più nel tempo: regioni efficienti insieme a regioni alle prese con gravi problemi di funzionalità. Una della cause va individuata nell’errata convinzione che il livello regionale avrebbe trovato da solo la sua strada. All’opposto il sistema dei controlli progressivamente smontato; il potere sostitutivo dello Stato esercitato pochissimo; un sistema elettorale regionale che favorisce il leaderismo sono stati alla base del fallimento dell’equilibrio tra il potere centrale e i poteri locali. Di tali squilibri paghiamo le conseguenze. Ed esse sono venute drammaticamente in rilievo una situazione che esigerebbe unità di intenti e lealtà istituzionale (come continua a chiedere senza esito il presidente della Repubblica).

Le richieste di «regionalismo rafforzato» da parte di alcune amministrazioni del Nord Italia, rimaste fortunatamente sospese, sono l’ennesimo segnale di tendenze centrifughe di per sé poco opportune, ma che nell’attuale momento mostrano tutta la loro pericolosità. Del resto, non occorre tornare troppo indietro nel tempo per ricordare che la riforma del 2001 (con la modifica del titolo V della Costituzione) fu l’improvvido tentativo di arginare le spinte localiste della Lega. Oggi il Paese è chiamato al massimo spirito di collaborazione tra i diversi livelli istituzionali. Nelle difficili (e anche dolorose) scelte che il governo si troverà a fare i vertici politici delle regioni dovranno aver cura di allinearsi, senza incertezze o resistenze, alle direttive statali. Dal canto suo l’esecutivo dovrà coinvolgere il più possibile il Parlamento nella ricerca delle soluzioni più adatte a salvaguardare la salute dei cittadini e a tutelare i diritti di tutti.

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