Ricerca, specchio
dei nostri limiti

La ricerca scientifica, come noto, contribuisce in maniera sempre più decisiva a plasmare il futuro economico, sanitario e perfino sociale delle nostre democrazie. Nel caso dell’Italia, studiando le tendenze della stessa ricerca scientifica secondo l’adagio «follow the money» («segui i soldi»), si scopre qualcosa anche sul presente del nostro Paese. Partiamo dagli indizi, dunque. Il Consiglio europeo per la ricerca (Erc) - come ogni anno - ha appena assegnato nuovi fondi per i cosiddetti «starting grants», finanziamenti destinati agli studiosi più giovani - che abbiano completato un dottorato di ricerca negli ambiti più vari da non oltre sette anni - che intendano lavorare sul territorio dell’Unione europea.

Si tratta di sovvenzioni che ammontano a 619 milioni di euro in un anno, suddivisi tra 397 vincitori. Parliamo dunque di un assegno medio di oltre un milione e mezzo ciascuno, una somma non trascurabile. Vincitori e vincitrici provengono da 45 diversi Paesi del pianeta. A essersi aggiudicati il numero maggiore di finanziamenti sono i tedeschi (67), seguiti dagli italiani (58), poi dai francesi (44) e dagli olandesi (27). Anche quest’anno ci sarebbe di che essere orgogliosi del nostro Paese i cui ricercatori, al secondo posto in assoluto tra i premiati, sono leggermente «sovra rappresentati» rispetto all’incidenza della popolazione tricolore su quella europea complessiva.

Ma è davvero tutto oro quel che luccica? Se analizziamo la classifica dei Paesi dell’Unione europea e associati dove gli stessi vincitori dei finanziamenti hanno proposto di sviluppare i propri progetti di ricerca, le cose cambiano e non di poco: a essere preferiti dai vincitori sono università e centri di ricerca ospitati da Germania (72 progetti), Francia (53), Regno Unito (46) e Paesi Bassi (44). In questa classifica l’Italia è solo al quinto posto con 28 grants. Per ricapitolare: i giovani studiosi italiani sono preparati e brillanti al punto da vincere un numero di finanziamenti per la ricerca più che proporzionale alla dimensione della nostra popolazione, tuttavia la maggior parte di loro sceglie poi di svolgere la propria ricerca in un altro Paese dell’Unione europea.

Quella segnalata è una tendenza di lungo periodo. Qualche tempo fa il «Sole 24 Ore» ha analizzato l’andamento dei finanziamenti Erc dal 2014 al 2020. Ne è emerso che su 7.803 contratti di ricerca (per un valore di 13,3 miliardi di euro), solo 504 (per un corrispettivo di 672,8 milioni) hanno interessato direttamente laboratori e università situati in Italia, pari al 6,4%. Ma se passiamo alla nazionalità degli scienziati premiati, «il peso specifico tricolore aumenta - osservava il quotidiano della Confindustria - essendo 829 i ricercatori italiani vincitori, nello stesso arco di tempo, su 8.639 complessivi, cioè il 9,5%. Purtroppo solo 384 sono rimasti o tornati nel nostro Paese, gli altri hanno optato per l’estero».

Un fenomeno simile dovrebbe interrogare ovviamente i nostri atenei e centri di ricerca, spingendoli a una franca riflessione sul proprio ruolo e sui propri limiti, pena continuare a perdere la «materia prima» che ne giustifica l’esistenza, vale a dire le risorse umane e finanziarie per studiare il futuro in tutti i campi del sapere. Allo stesso tempo la «fuga di cervelli» dovrebbe far riflettere anche chi ritiene - in modo un po’ semplicistico - che il declino demografico italiano possa essere contrastato con la sola immigrazione. Infatti, come scritto con incisività dal professore Alessandro Rosina nel libro «Crisi demografica» (Vita e Pensiero), «una realtà che non offre adeguate condizioni di valorizzazione e di sostegno progettuale agli autoctoni difficilmente diventa attrattiva per giovani dinamici e qualificati dall’estero».

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