Ricucito il Def, resta la ferita politica

POLITICA. Lo strappo è stato ricucito in ventiquattr’ore, il Def (Documento di Economia e Finanza) finalmente varato, lo scostamento di bilancio anche, così ora ci sono i soldi per le misure del decreto lavoro che il consiglio dei ministri varerà nella seduta di lunedì 1° maggio, primo tra tutte il taglio del cuneo fiscale.

Il vantaggio per il Tesoro è di 3,4 miliardi nel 2023 e di 4,5 nel 2024. Ma resta la brutta figura, come l’ha definita la stessa premier Meloni - furibonda - dal momento che un Def non era mai stato bocciato se non a prezzo della crisi di governo tanto è politicamente e istituzionalmente importante.

Resta la ferita politica che accresce i sospetti tra i partiti, le correnti, le varie personalità della maggioranza in competizione tra loro sempre in allerta per i possibili colpi di fuoco amico (contro Meloni? Contro Giorgetti?). E resta la sensazione di una carenza di padronanza del campo parlamentare: troppe assenze ingiustificate di deputati in un giorno fondamentale, addirittura calcoli sbagliati da parte dei capigruppo su come calcolare il quorum necessario per una votazione di rilievo costituzionale, scarso controllo sui gruppi parlamentari forse per un eccesso di sicurezza.

È vero che tutto si è risolto con una seduta straordinaria del consiglio dei ministri che ha varato un Def leggermente modificato così da poterlo esaminare di nuovo (vale il principio del ne bis in idem, non si può mettere in votazione lo stesso testo due volte) e la perdita di un giorno di vacanza per i parlamentari (che peraltro pare li abbia molto indispettiti).

Ma è anche vero che le ripercussioni di un precedente del genere si misurano sul lungo periodo in termini di credibilità della maggioranza e del governo. Perdipiù in un periodo assai delicato in cui Roma è messa sotto pressione dai partner e dalla Commissione perché si decida a ratificare la riforma del Mes, il nuovo fondo salva Stati che per anni è stato lo spauracchio della destra e dei grillini, e perché offra sufficienti garanzie all’Europa che i fondi che ci sono stati o prestati o consegnati siano effettivamente spesi col Pnrr senza gli intoppi che invece si stanno manifestando sempre più. Da Londra, Meloni rassicura sulle intenzioni italiane – non parla del Mes, per ora – ma Giorgetti al vertice dei suoi colleghi ministri finanziari è costretto nei corridoi a spiegare, giustificare, promettere.

Tutti sanno che Giorgetti è favorevole alla ratifica del Mes ma Meloni ancora non si decide, si dice perché pensa di poterla usare come arma tattica per ottenere le modifiche al Pnrr che servono per guadagnare tempo o per ridimensionare le pretese dei falchi del Nord nella riforma del Patto di Stabilità che è rimasto sospeso per il tempo della pandemia.

A rasserenare l’atmosfera ci pensano i numeri del Pil che vanno meglio di quanto ci si aspettasse e comunque meglio della media europea, segno che i timori di una recessione sono meno forti delle previsioni che la davano per acquisita mentre acquisita è una crescita sull’anno di almeno lo 0,8 per cento.

È l’argomento cui Meloni, Giorgetti e tutti i partiti di governo si aggrappano per controbattere alle critiche dell’opposizione, molto aggressive nel rinfacciare l’incompetenza o la inadeguatezza degli avversari al potere. Ma ancora una volta l’impressione è di una maggioranza che si fa del male da sola, come nel caso del Def, piuttosto che per iniziativa delle opposizioni che restano divise e deboli, più interessate a guadagnare percentuali di gradimento elettorali a scapito l’una dell’altra che a mettere sotto pressione ministri e sottosegretari.

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