Riforme necessarie ma servono i riformisti

ITALIA. Dalla fine del ciclo berlusconiano (2011, governo Monti) all’inizio (2022), forse, di un ciclo meloniano, c’è un cambio di parametro della politica italiana che tocca il tema delle riforme. Oggi più che mai necessarie, anzi obbligatorie per il Pnrr.

Ma sembrano paralizzati i riformisti che dovrebbero sostenerle. Le date chiave sono il 2016, con la bocciatura referendaria, e il 2018, l’anno del trionfo grillino. Con il referendum che non ha convalidato modifiche costituzionali drastiche (alcune essenziali, altre populiste, come la fantasiosa riforma del Senato) si è bloccata la stagione riformista (Letta, Renzi, Gentiloni) con un colpo di coda finale (Draghi) apprezzato a parole ma alla fine caduto sotto i colpi persino di Forza Italia.

In realtà, già dal 2018, era emersa, per volontà elettorale, la scelta di abbandonare un metodo (riforme più aggancio tenace all’Europa), ma di «provare» un modello alternativo. Il riformismo non scalda i cuori e gli elettori hanno scelto per due volte il pacco sorpresa completo. E abbiamo avuto così prima il modello Casaleggio e poi quello old style della tradizione di destra italiana.

Entrambi di contenuto, intendiamoci, persino quello utopico del sognatore grillino. Non facciamoci fuorviare dalla sua applicazione folcloristica, contraddittoria, persino volgare. Casaleggio aveva in mente la decrescita felice, con al centro il reddito di cittadinanza. Niente Europa, G7, geopolitica, cioè le cose rese poi inesorabili da pandemia e guerra. Meglio una comunità di figli dei fiori, che si accontentano di poco, con redditi piatti e quindi beatamente egualitaria, un ambiente presuntivamente rispettato dal negato sviluppo industriale e tecnologico. Gli elettori magari hanno visto 730 euro e non tutto il resto, e infatti il sogno di Casaleggio era già sfiorito prima della sua morte, e non poteva essere un comico milionario a proseguirlo.

Il fallimento ha avuto almeno il pregio di essere molto rapido e il finale farsesco del Di Maio diplomatico mediorientale, del Bonafede lottizzato dalla Meloni, della corsa alle poltrone e della fine dell’«honestà-honestà» è oggi melanconicamente rappresentata solo dall’enfasi tardo progressista di Giuseppe Conte.

Ma anche Giorgia Meloni ha proposto un modello e ha vinto con quello le elezioni. Il fai da te di destra non è quello di un sognatore. È concreto e solido, del resto da sempre, fin dai tempi di Tambroni, quando Giorgia non era ancora nata. Uno Stato forte, centralista, ministeriale, il divieto di chiamare Paese la Nazione, patriottismo, sovranismo e alleanze (ben poco convenienti) con altri sovranisti.

C’è, è vero, da tenere conto del modellino pseudo federalista dell’alleato leghista inquieto perché perdente e infatti sarà forse la conciliazione impossibile tra l’autonomia differenziata e il nazionalismo che diventerà prima o poi la prova vera di maggioranza.

Ma per il momento va bene così, e se il modello vincente del 2022 scontenta qualcuno quando Giorgia fa l’europeista zelante fin quasi alla piaggeria, pazienza. I seguaci vengono tacitati con una lottizzazione senza remore e poi c’è sempre qualche polemica sul fascismo che distrae chi guarda la tv la sera.

È chiaro che il modello Meloni non farà la fine di quello patetico dei grillini, e la premier fa davvero di tutto per essere ben accetta e apprezzata nei circoli internazionali che contano. È filo Nato da sempre, perché Nato significava anche anticomunismo. Qualche volta le scappa la frizione ma basta non andar più ai congressi di Vox e usare abilmente le indubbie capacità politiche per conquistarsi visibilmente un ruolo di affidabilità. Utile all’Italia, per ora. Ma non quando tenterà il rovesciamento della maggioranza europea.

Il problema sono le riforme, per tornare al punto, e questa modesta classe dirigente, eccezion fatta forse per Fitto, vecchia volpe Dc, sta per perdere la prossima rata di finanziamenti europei.

Ma per le riforme occorrono appunto i riformisti. Il Terzo Polo si perde nella psicanalisi e i vincitori interni delle primarie interne Pd sono ancora ipnotizzati dalle votazioni decisive degli esterni pro Schlein. Altri riformisti in giro non si vedono.

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