Sanremo pop, caos calmo
e tristezza sociale

Voglio una vita spericolata, voglio una vita come Zlatan Ibrahimovic. Il colpo d’ala, l’unico vero attimo fuggente del Festival è accaduto lontano da Sanremo, a 60 chilometri di distanza dai riflettori, sull’asfalto dell’autostrada. In coda da tre ore per un incidente il calciatore miliardario ha fermato un motociclista e gli ha chiesto un passaggio fino al teatro Ariston, dove lo stavano aspettando Amadeus e altri dieci milioni di italiani. Come in un film western, quando John Wayne tira su il tenentino ferito e lo porta in salvo a Fort Apache. Come Vittorio Gassman in una commedia all’italiana, spaccone, simpatica canaglia: supera la fila e si fa beffe di chi resta incolonnato.

Papillon affusolato, occhio malandrino da sciupafemmine, Ibra spicca dentro uno spettacolo fiacco e tristanzuolo che ricorderemo per gli applausi finti e una manciata di canzoni appena sopra la sufficienza: canta male (ma non è l’unico sul palco dell’Ariston), il suo lessico è basico-machista («Troppa gente sul palco, manda via tutti, restano solo i tamburi e le ragazze»), i silenzi interminabili come quelli di Celentano. Ma senza di lui Amadeus avrebbe fatto ancora più fatica. La sfida era ricorrere al Festival per curare la psiche collettiva dall’ansia da Covid, dopo un anno interminabile in cui la tv è diventata un bollettino di guerra. Beninteso, non è una terapia particolarmente sofisticata, siamo ancora al «Canta che ti passa», però questo passava il convento quando ci hanno messo la testa, e Mario Draghi non può pensare a tutto.

In teoria, l’Auditel avrebbe dovuto essere favorevole, tutti costretti in casa dal coprifuoco, che altro fare se non sintonizzarsi su Sanremo? E invece no, un milione circa di ascolti in meno ogni sera. Secondo il sociologo, Amadeus, nella geografia del sentimento nazional popolare ha vinto il caos calmo della tristezza sociale, quello del me ne vado a letto presto, non è il momento di far festa. Il resto l’ha fatto la mancanza di super ospiti stranieri. I nostri hanno dato il massimo, la sensazione è che non sia stato abbastanza: «Sanremo è il posto in cui canto peggio», ha ammesso Laura Pausini, arrivata in riviera per festeggiare la vittoria ai Golden Globes.

È stato il Festival del «whatever it takes»? Certamente sì, il direttore di RaiUno Stefano Coletta l’ha detto chiaro: «Non farlo sarebbe stato un grave vulnus per il servizio pubblico». Ci vorrebbe Sigmund Freud per decifrare l’aria che tira, nell’Italia sull’orlo di una crisi di nervi, ma qualche interpretazione è lecito proporla. La mancanza di pubblico dentro il teatro potrebbe avere inciso tantissimo, quel vuoto spettrale - maldestramente riempito di palloncini - ha spiazzato i telespettatori, insinuando la sensazione spiacevolissima che ti afferra quando vedi qualcosa di familiare sotto una luce diversa, e fai fatica a riconoscerlo. Sanremo è un rito, un rito che prescinde dai contenuti, ma la sua liturgia, come ogni liturgia, non può fare a meno del pubblico.

Resta la curiosità per il motociclista che ha salvato Ibrahimovic portandolo al teatro Ariston in tempo per la serata. Avremmo voluto vederlo sul palco in eurovisione, eroe sconosciuto che soccorre il divo pallonaro restato a piedi. In un colpo solo ci ha dimostrato l’inutilità del denaro (Zlatan ha un mega yacht ormeggiato al largo di Sanremo) e il valore incommensurabile della fiducia nel prossimo. A qualcuno è venuto in mente il Buon Samaritano, ad altri la sempiterna capacità degli italiani di cavarsela nei momenti difficili. Ad altri ancora il vaccino di cui abbiamo bisogno per risollevarci. Hanno tutti ragione.

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