Scuola e lavoro, intreccio virtuoso

Formazione. A Bergamo, gli iscritti alle scuole del secondo ciclo sono 70 in meno rispetto allo scorso anno. Per la verità non perché ci siano stati studenti «bocciati» due volte nel primo ciclo e, quindi, formalmente esonerati dall’«obbligo scolastico» fino a 16 anni.

Semplicemente perché il numero dei nostri giovani è da anni in diminuzione progressiva (quest’anno addirittura 2.142 in I primaria!). Diminuzione che subirà un’accelerazione molto forte nei prossimi 10 anni. Proprio questo dato di fatto spinge tutte le persone di buon senso a porsi senza più i soliti pregiudizi ideologici che hanno afflitto il secolo scorso a porsi una domanda. Questa: ha ancora senso, a 100 anni esatti dalla riforma Gentile, mantenere un secondo ciclo degli studi pensato per leve militari dagli effettivi delle quali selezionare progressivamente chi si adatta meglio degli altri all’offerta formativa dei licei ritenuti di serie A, degli istituti tecnici di serie B e degli istituti professionali di serie C, e solo perché gli ultimi due, alla loro conclusione, permettono un rapido inserimento nel mondo del lavoro? La risposta è no. Per due ragioni.

Anzitutto perché con meno di 400mila nati all’anno non possiamo più permetterci il lusso di perdere anche un solo giovane nei nostri percorsi di secondo ciclo solo perché i suoi talenti e le sue possibili eccellenze, quindi anche i suoi possibili meriti, non coincidono con ciò che l’attuale scuola ancora novecentesca ritiene talenti, eccellenze e merito.

In secondo luogo perché la teoria fordista secondo la quale prima si studia e poi si lavora e, soprattutto, secondo la quale mentre si studia non si devono fare esperienze di lavoro è confutata di fatto, oltre che per ragioni epistemologiche e pedagogiche, in un’epoca come la nostra fondata sulla globalizzazione delle competenze, sulla pervasività delle tecnologie digitali, dell’intelligenza artificiale, della robotica, delle innovazioni scientifico-tecnologiche. Da questo punto di vista, i due tempi, per risultare entrambi positivi e motivanti, si devono sempre integrare, includere e completare l’uno nell’altro per dare origine ad un movimento ascendente di maturazione sia personale sia socio-economica. Viceversa il lavoro non diventerà mai un’occasione preziosa, come deve essere, per far crescere tutti i giovani, nessuno escluso, sul piano della responsabilità culturale, etica e sociale, oltre che economica, non solo nell’età evolutiva, ma nell’intera durata della vita. E si dovrà aspettare ancora chissà quanto per persuadersi che formazione iniziale, in servizio, permanente e ricorrente non possono più essere fasi separate, disposte su un’asse longitudinale cronologico, ma hanno un senso soltanto se integrate e co-implicate, sebbene ad intensità diverse, l’una nell’altra, sempre. Solo così si potrà creare ricchezza non soltanto economica da redistribuire più equamente tra chi ha di più e chi ha di meno, ma anche soprattutto umana, etica, culturale, civile. E si potrà contrastare il gigantesco mismatch tra competenze richieste e competenze disponibili oggi già talmente conclamato da annunciare un possibile collasso del nostro modo di vivere.

Bisogna allora inserire in questo scenario la lettura anche dei dati locali sulle iscrizioni 2023-24 al secondo ciclo, se non la si vuole immiserire alle solite registrazioni descrittive delle variazioni percentuali millesimali che si susseguono da decenni. Tanto più che ci riferiamo ad uno dei territori a più alta intensità manifatturiera del Paese e che fa non poca fatica a coprire i posti di lavoro che offre.

Forse è anche per questo che le iscrizioni degli studenti bergamaschi ai licei, pur essendo aumentate rispetto all’anno precedente dello 0,5%, sono quasi dieci punti percentuali inferiori alla media nazionale e 3,6% in meno rispetto alla media lombarda (51,3%). In compenso, gli iscritti agli istituti tecnici, costanti rispetto allo scorso anno, sono di quasi 2 punti superiori alla media lombarda e di oltre 7 rispetto alla media nazionale. Il busillis è creato dall’istruzione professionale. I dati riportati dal giornale collocano questo percorso formativo al 14,2 per cento delle preferenze: più del dato regionale (12,5) e di quello nazionale, ma a Bergamo in calo dello 0,5% rispetto allo scorso anno. Non è dato sapere, tuttavia, se gli iscritti ai Cfp sono tutti conteggiati in questa percentuale. La Lombardia è l’unica regione in Italia, infatti, ad avere la filiera delle qualifiche professionali triennali, dei diplomi professionali quadriennali, del quinto anno di specializzazione Ifts e del biennio superiore di ITS.

Un dato molto significativo è comunque il successo di iscritti al liceo sperimentale quadriennale di scienze applicate al Natta. Forse i giovani per primi, e molto più della nostra classe dirigente, capiscono che non è bene essere l’unica nazione europea nella quale l’accesso al segmento terziario (università, accademie di belle arti/conservatori e Its) avviene dopo 13 anni di scuola invece che 12. Così anche ritardando in un modo che non ha pari in Europa l’ingresso nel lavoro e nell’autosufficienza.

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