Solidarietà al contrario
nel piano migranti

Ricorre per ben 22 volte la parola «solidarietà» nella comunicazione delle nuove regole europee in materia di immigrazione presentate martedì da Ursula von der Leyen e dalla commissaria Ue agli Affari interni Ylva Johannson. Ma si tratta di un inganno verbale: la solidarietà infatti non è intesa nei confronti di chi arriva nel nostro continente, bensì tra gli Stati chiamati più che ad accogliere a gestire insieme i respingimenti. C’era grande attesa per la svolta annunciata da Ursula von der Leyen, che nei giorni precedenti aveva parlato di un superamento del Trattato di Dublino: un trattato che ha rappresentato fin ad ora un perfetto alibi per scaricare sui Paesi mediterranei, cioè sui Paesi di arrivo, tutto il peso dei flussi migratori.

Le conseguenze del trattato sono nei numeri: nell’ultimo decennio rispetto a mezzo milione di sbarchi l’Italia ha potuto contare su 13mila migranti ricollocati negli altri paesi d’Europa. Superare Dublino era dunque un passaggio importante, che rimuoveva una situazione di blocco: il fatto che siano state poste le basi per superare quel trattato è un fatto positivo, come hanno sottolineato anche i vescovi italiani riuniti per il consiglio permanente della Cei. «L’accordo che prevede il superamento di Dublino», ha detto il segretario della Conferenza episcopale Stefano Russo, «mi sembra importante perché indica un percorso che continua, che può essere migliorato e la volontà di arrivare a situazioni condivise». Il superamento delle regole di Dublino era un processo iniziato cinque anni fa con la precedente commissione europea e finito in stallo. Il fatto che Ursula von der Leyen lo abbia rimesso in moto è un fatto positivo, che lei stessa ha voluto rimarcare intitolando il documento «Un nuovo inizio».

Detto questo, la filosofia del provvedimento paga prezzi pesanti alle posizioni sovraniste e in particolare ai quattro Paesi del blocco di Visegrad, guidati dal leader ungherese Viktor Orban. Di fatto ogni Stato membro sarà lasciato libero di comportarsi come vuole: accogliere i richiedenti asilo oppure impegnarsi economicamente per rimandarli a casa loro. In sostanza un paese può partecipare al meccanismo di «solidarietà» ricorrendo a rimpatri «sponsorizzati»: cioè avrà una finestra di tempo per accollarsi una parte dei migranti sbarcati in uno dei Paesi di arrivo per contribuire a rimandarli nei Paesi di origine. Naturalmente la gestione di questa finestra di tempo dai confini imprecisati spetterà ai Paesi di arrivo, con tutte le conseguenze e i problemi che è facile immaginare. Ylva Johannson si è affrettata ad assicurare che lo screening dei richiedenti asilo «durerà al massimo cinque giorni e comprenderà controlli di sicurezza, anche sanitari» in centri che devono essere extraterritoriali.

Un aspetto positivo introdotto è il fatto che per i ricollocamenti si terrà conto dei familiari presenti in uno Stato membro allargando il concetto di famiglia anche ai fratelli, alle sorelle e alle famiglie che si sono costituite durante il viaggio verso l’Europa. Ed è stata anche ribadita la necessità che le persone che si trovano per mare vadano comunque soccorse e accolte anche se i modi saranno da approfondire.

Piccole aperture che non bastano a dare legittimità alla parola «solidarietà» così ricorrente nella comunicazione della Commissione. C’è solo da augurarsi che nel cammino che attende ora il provvedimento (deve passare al vaglio del Parlamento europeo e del Consiglio) quella parola si riempia di contenuti diversi, a partire dal fatto che i collocamenti devono diventare obbligatori e non scambiabili con biglietti d’aereo per riportare i migranti là da dove erano partiti.

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