Fine vita, il Parlamento
se ne lava le mani

La sentenza dei giudici di Milano che ha mandato assolto Marco Cappato perché «il fatto non sussiste» non significa affatto il via alla possibilità di praticare il suicidio assistito. Chi lo ha suggerito sbaglia, dimostrando ancora una volta che il confronto pugnace tra guelfi e ghibellini può pericolosamente inclinarsi verso decisioni utilitaristiche, che speculano su fatti dolorosi per affermare una propria visione semplice e parziale. Il Tribunale di Milano non poteva fare altro che accogliere quanto scritto dai giudici costituzionali sulla rinunzia in qualche caso alla «punibilità».

Probabilmente, ma occorre aspettare le motivazioni, il Tribunale è andato più in là e, accertando la non esistenza dei fatti, ha ritenuto la condotta di Cappato non riconducibile all’articolo 580 del Codice penale che punisce l’assistenza al suicidio. Giusto o sbagliato? Vero o falso? In realtà il punto non sta qui e dunque non c’è ragione alcuna di esultanza. La sentenza forse ha il pregio di mettere la parola fine a una questione per la quale si è saliti sulle barricate e di riportare la faccenda a un confronto più pacato e libero da quelle assertività rocciose di principio che non fanno bene a nessuno.

Perché dell’argomento, nel merito, si deve tornare a discutere. La pagina etica e legislativa è ancora tutta da scrivere e forse la sentenza di Milano potrebbe aiutare, a patto di accettare di inoltrarsi con razionalità e rigore morale in quella terra sconosciuta, che fin qui ha impaurito il legislatore. Una legge sul fine vita e una riforma degli articoli del codice erano state sollecitate dalla Corte costituzionale con l’indicazione di elementi interessanti per un dibattito complesso, dentro e fuori il Parlamento, ma al contempo maturo e responsabile.

Ebbene finora non è stato avviato e non sembra neppure previsto dalle Camere, nonostante vi siano depositate ben dieci proposte di legge. Cosa manca per darne il via libera? Il ritornello che non si tratta di una priorità per il Paese va sbaragliato, perché semplicemente non è vero. Lo dimostrano i tribunali e le sentenze della Corte. L’impressione è invece che oggi il legislatore in Parlamento disponga di poche categorie antropologiche e sia attrezzato di poco studio al riguardo e preferisca finire bloccato dai molti antagonismi e protagonismi ideologici contrapposti. Meglio lavarsene le mani e lasciare la partita ai giudici. Le derive libertarie da un lato e apodittiche dall’altro non fanno altro che contribuire a uno scivolamento totale nell’anarchica. La Corte ha detto con chiarezza che l’aiuto al suicidio è un disvalore, ma può esistere un’area di non punibilità indicando percorsi, paletti, limiti, funzioni anche del sistema sanitario nazionale per evitare che l’invocazione dell’autodeterminazione non sventoli come un vessillo ideologico a danno dei soggetti che vogliono farla finita più deboli e vulnerabili , ma diventi lo stimolo a discutere delle cure necessarie e naturalmente proporzionate, perché si possa prendere tutti insieme una decisione più serena. Un po’ come è avvenuto con la questione della sedazione profonda nel corso del dibattito sulla legge del testamento biologico.

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