Tamponi, la strategia
per sfiancare i «no-vax»

Da venerdì 15 ottobre sarà dura la vita senza il passaporto verde, forse impossibile. Esibire il green pass diverrà sempre più un gesto abituale e frequente, come inforcare gli occhiali, estrarre le chiavi per aprire la porta di casa, allacciarsi le scarpe, pagare il caffè, utilizzare il bancomat o la carta di credito. Dovremmo portarcelo sempre dietro nello smartphone (con un occhio al livello della batteria, perché se si scarica sono guai) o in tasca (in quel caso mai più senza in tasca o nel portafoglio). Ieri un altro passo avanti in questa direzione, verso il green pass «totale»: il premier Mario Draghi ha firmato le linee guida sul possesso della certificazione di immunità da parte del personale delle pubbliche amministrazioni. Norme severissime, fatte di multe salate per chi non lo mostra e per chi non lo controlla, che si estendono anche al privato, agli autonomi, ai titolari di partite Iva, dalle colf alle badanti, in tutto 23 milioni di lavoratori. Serve, come è noto, anche per entrare in qualunque luogo pubblico, dai ristoranti ai teatri ai cinema.

Chi ne è sprovvisto sul luogo di lavoro è considerato «assente ingiustificato» fino alla sua presentazione, con relativa sospensione dello stipendio (ma senza conseguenze disciplinari). A che serve tutto questo rigore? A uscire dalla pandemia, raggiungere l’immunità di gregge e ritrovare la strada della ripresa economica. A essere più liberi.

In realtà il green pass è anche un incentivo a vaccinarsi, il penultimo gradino prima dell’obbligo di immunizzazione per tutti. Il governo infatti ha scelto di usare la mano pesante contro i no green pass e il guanto di velluto contro i no vax. Come è noto la carta verde si può ottenere se si è guariti dal Covid (per sei mesi per chi è senza vaccino), 14 giorni dopo aver ricevuto la prima dose del siero o subito dopo la seconda dose (in questi casi dura 12 mesi). Oppure, nel rispetto di chi non si vuole vaccinare, dopo aver effettuato un tampone antigenico o molecolare, con esito negativo, con durata rispettivamente di 48 o 72 ore. Dopodiché bisognerà rifarlo. Per i soggetti «fragili» (che non possono vaccinarsi) il test molecolare o antigenico è sempre gratuito.

Il governo ha imposto prezzi calmierati per i tamponi: 15 euro per gli adulti, 8 per i minori, ma in ogni caso dovranno essere a carico dei lavoratori. Grillo, la Meloni e Salvini – leader dei movimenti in cui si riconoscono molti no vax, anche se i sondaggi dicono che almeno il 70 per cento dei loro elettori sono favorevoli a immunizzarsi - ieri hanno reiterato la richiesta di pagare il tampone a chi non si è voluto vaccinare. Anche i sindacati chiedono lo stesso provvedimento e parlano di discriminazione (il datore di lavoro potrebbe «regalare» il test ai dipendenti in suo favore e farli pagare agli altri).

In effetti conti alla mano il provvedimento è una bella legnata per il lavoratore no vax. Basta fare un po’ di conti: 15 euro ogni 48 ore, fate un po’ voi come una detrazione in busta paga di 150 euro al mese. E visto che il test non viene pagato in rapporto al reddito, i più poveri sono quelli che ci rimettono di più. Significa che lo Stato vuole vessare i lavoratori no vax?

L’obiezione è che il green pass è un incentivo a vaccinarsi e dunque se il tampone fosse gratuito non rappresenterebbe più un pungolo a immunizzarsi.

In questo caso insomma il tampone è come una sanzione, una sorta di multa, di percorso a ostacoli, una scocciatura di Stato. Il governo punta a convincere il no vax, sfibrato, ad andare a vaccinarsi (gratis). Pietra su pietra, tampone dopo tampone.

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