Telefonini in aula, il divieto è giusto

Italia. Confesso una invincibile affezione per la vecchia denominazione «ministero della Pubblica istruzione», ormai perduta nella nebbia del tempo insieme alla carica di fierezza di qualcosa che prima era riservato ai pochi che potevano pagarsela e che era diventata di tutti.

Senza altro merito che quello di essere cittadini dello Stato italiano. Faccio un po’ fatica, perciò, con più recenti denominazioni che accoppiano parole che appartengono ad ambiti e piani diversi dell’esperienza umana. Detto questo, se di vietare i telefonini in classe l’avesse detto un mostro sacro della pedagogia, lo psicanalista dei patriarchi biblici, l’esperta di mindfulness, la consapevolezza, l’idea sarebbe osannata invece che discussa. Via tutto, il cellulare o non si porta a scuola o si recupera nell’intervallo e all’uscita. La regola vale anche per gli adulti, come non fumare, non mangiare e bere in classe. Non una limitazione, ma la tutela di uno spazio, la liberazione dalla schizofrenia indotta dall’iperconnessione. Nessuno può star bene se contemporaneamente chatta e segue un discorso. I giornalisti lo fanno di necessità, e vedete i risultati.

Abbiamo alcuni dati, ormai certi: se non si esercita un’abilità, la si perde. Vale per i muscoli del corpo, per i movimenti della mano, per il cervello. Ci hanno dimostrato che secondo quel che facciamo si potenziano o deprimono reti neurali diverse. Sperimentiamo, sui nostri figli, la perdita di certi tipi di manualità fine (allacciarsi le stringhe, sbucciare una mela, impugnare correttamente una penna), abilità ormai più arcaiche del costruirsi arco e frecce. E insieme osserviamo l’acquisizione di una nuova manualità legata al digitale. Le stesse modifiche avvengono per gli altri sensi: l’udito e i tempi sempre più corti di attenzione alla parola parlata, la vista sottoposta a sollecitazioni troppo veloci per il cervello, la perdita di allenamento della memoria e della capacità di sintesi perché si può accedere sempre alle informazioni.

La scuola può essere il luogo dove le nuove modalità cognitive si ribilanciano con quelle che la specie umana si è guadagnata in millenni di evoluzione. Un luogo libero dal rumore di fondo, dove si può essere interi e non «esplosi» come un progetto in Cad. Naturalmente stare senza cellulare non basta. Però è una piccola possibilità, un modo di riscoprirsi capaci di fare altro, di pensare in un altro modo. In altri ambiti (associazioni, oratori) col consenso dei ragazzi si fa già. Viene proposto come un gioco, o una sfida o un’avventura.

A proposito di merito, citiamo uno che non ha mai avuto problemi di successo formativo, Mario Draghi. In un incontro con i ragazzi di una scuola aveva rivelato il suo segreto: «La cosa che stai facendo in questo momento, è la cosa più importante». Cioè, se è la più importante, dimentichi il resto e ci metti tutto te stesso. Ma come fai, se il filo del ragionamento è rotto continuamente dall’invadenza di stimoli e messaggi che aprono porte su altri mondi, all’infinito?

Chiunque si occupi di bambini e ragazzi in questo momento di crepuscolo sociale, dice della fatica di «tenerli assieme», di «renderli consapevoli di quel che stanno facendo», di «incoraggiarli perché credano in se stessi». Il modo migliore di sentirsi bene è capire che sei tu da solo, col tuo corpo e la tua testa che sei capace di farcela. Senza bisogno di oggetti consolatori in tasca. E, infine, la mancanza di cellulari a scuola toglierebbe l’alibi ai docenti che non sanno catturare l’attenzione o tenere la classe. Insomma, il ministro Giuseppe Valditara ha ragione. Ma l’eliminazione del telefonino in classe non ci sarà. Non per motivi ideologici, ma perché non si saprebbe dove metterlo. Non ci sono armadietti, il bidello non ne vuol sapere, il cassetto dell’insegnante non se ne parla, se torna il Covid bisogna sanificare, se li rubano il preside ci va di mezzo…

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