Terzo Polo, fine prevista di un’unione d’interesse

POLITICA. «Il partito unico è morto». Parola di Carlo Calenda. Addio Terzo Polo. È finita: Matteo e Carlo hanno litigato di brutto e si separano con rancore e tra gli insulti. Diciamoci la verità: ce l’aspettavamo tutti da questo matrimonio di interesse. Pensare poi che quella strana coppia di egocentrici potesse reggere oltre il viaggio di nozze era cosa da anime belle.

Due come loro che quando vanno a tavola dicono, come il principe di Salina, «dove mi siedo io è capotavola», non potevano stare nella stessa stanza e comandare insieme: ognuno vuole comandare da solo e avere la corona sulla testa.

Avevano promesso all’elettorato che Italia Viva e Azione si sarebbero sciolti e fusi: probabilmente mentre lo dicevano, incrociavano le dita dietro la schiena. Naturalmente l’uno dà la colpa all’altro: «Ci volevi fregare, caro Matteo, e ti è tornata indietro» dice Carlo; «Sei matto, hai sbagliato il dosaggio delle pilloline» risponde Matteo. Risparmiamo al lettore la diatriba causidica intorno a cui è deflagrata la rottura: se i singoli partiti si dovessero sciogliere prima, durante o dopo il congresso fondativo della nuova creatura che mai vedrà la luce. Dietro ognuna di queste parole c’è la possibile «fregatura» dell’uno verso l’altro. La prova: Calenda sospetta che Renzi si voglia tenere le mani libere con un proprio partito il più a lungo possibile per ereditare gli elettori di Berlusconi, almeno quelli che non vogliono andare né con Meloni né con Salvini. Renzi a sua volta sospetta che Calenda, una volta fatto il partito unico, voglia fare il leader unico, il capo indiscusso lasciando Renzi nelle retrovie. Senza contare che il «Churchill dei Parioli», come lo chiama il sito di gossip politico Dagospia, è fortemente irritato dalle troppe cose che Renzi fa in giro per il mondo: non solo il consulente degli sceicchi arabi o il conferenziere a cachet, adesso anche il direttore di un giornale, il «Riformista», che potrebbe essere proprio lo strumento di raccolta dei voti post-berlusconiani (non a caso si è affiancato ad un ex deputato di Forza Italia).

Comunque i gruppi parlamentari Italia Viva-Azione dovranno restare ancora uniti sia al Senato che alla Camera a prescindere dal fallimento del progetto del partito unico. La ragione ha poco a che fare con gli ideali: infatti, se si dividessero perderebbero buona parte di quei due milioni e mezzo di euro che ricevono come rimborso spese, e la cosa non piace né agli uni né agli altri. Così almeno in aula Calenda e Renzi dovranno continuare a sopportarsi. C’è persino qualche ottimista, come Ettore Rosato, che spera che da quest’ultimo legame possa rinascere qualcosa. Difficile. Anche perché, dopo il risultato elettorale delle ultime politiche, l’8 per cento, buono anche se largamente al di sotto delle attese, le ultime prove sono state molto deludenti, se non proprio frustranti: quattro voti quattro alle regionali del Friuli, un tonfo clamoroso per la candidatura di Letizia Moratti in Lombardia. È pur vero che alle prossime elezioni europee a Renzi e Calenda converrebbe pur sempre fare pace: per entrare al Parlamento di Strasburgo bisogna superare lo sbarramento del 4 per cento (e chi ce la farebbe tra Italia Viva e Azione?) e affrontare campagne elettorali costose in maxi collegi elettorali.

E allora potrebbe essere questa una ragione per mettere da parte parolacce, insulti, sospetti, rancori e invidie e tornare a marciare uniti davanti a fotografi e telecamere. Il problema è che i due leader sono recidivi nel prendere e lasciare: ne sa qualcosa il povero Enrico Letta sedotto e abbandonato sia da Matteo che da Carlo. Infatti li odia entrambi.

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