Ue, l’Italia pesa di più ma integrazione da rivedere. Tanti i dossier aperti

L’Italia con il governo Draghi ha riacquistato un posto al tavolo dei negoziati in Europa, rientrando nella famiglia storica dell’asse franco-tedesco. Da quando è a Palazzo Chigi, il premier ha detto la sua, anche in termini critici, su tutti i temi in agenda, marcando il nesso fra europeismo e atlantismo: dai vaccini all’aggressività della Turchia, dalla Libia alle relazioni con Russia e Cina. Può essere che l’ex banchiere centrale, forte peraltro di un ottimo rapporto con Biden, conti più del Paese che rappresenta. In ogni caso il misurato protagonismo dell’Italia è osservato a Bruxelles oltre il perimetro nazionale, perché negli spazi vuoti che si aprono al vertice della Ue c’è chi guarda verso Draghi, l’uomo delle emergenze, per riempirli.

Il ritorno dell’Italia coincide con la fragile transizione del potere europeo: Angela Merkel a settembre lascia il timone dopo 16 anni e il voto in Francia del prossimo anno è una seria incognita per Macron. La nostra posizione, rientrata nei ranghi, coincide sostanzialmente con quella dei due leader.

Le incertezze sul futuro del governo tedesco modificano però i rapporti di forza a Bruxelles, aprendo una fase di imprevisti. Sono cambiati pure i dossier, e lo si è visto nel summit di questi giorni. Non era mai successo che un partner (Olanda) invitasse un altro membro (Ungheria) a lasciare la casa comune. Non capita poi tutti i giorni che il motore franco-tedesco finisca in minoranza, nel nostro caso sull’iniziativa di programmare un vertice fra l’Europa e Putin. I Grandi sono stati bocciati dai Piccoli (gli ex satelliti dell’Urss più Svezia e Olanda), ribaltando il mito di una Ue al guinzaglio di Parigi-Berlino, i primi della classe. Negli anni scorsi il rigore finanziario ha diviso il Nord e il Sud, ma la soluzione economica, pur non risolta del tutto, ha recuperato un consenso diffuso. Da qualche anno, invece, l’Europa si spacca sulla linea orizzontale con l’impennata illiberale di alcune aree dell’Est: la pietra dello scandalo è l’Ungheria di Orbán, con la violazione dei principi dello Stato di diritto. Il premier magiaro appare logorato, ma non è solo: con lui ci sono Polonia e Slovenia e, dopo aver lasciato il centrodestra europeo, è conteso in Italia da Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Draghi in questi giorni è stato fra i più severi verso Orbán. Sta cambiando il paradigma: balza in primo piano la necessità di rifondare l’integrazione europea sulla base di valori democratici condivisi, sulla spinta anche di quella «alleanza delle democrazie» disegnata da Biden. Con riflessi sugli altri due temi controversi e tossici, dove l’Europa non riesce a rispondere con una voce sola, in quanto si acuiscono i differenti lasciti storici e le diverse situazioni geografiche ed economiche: i rapporti con la Russia e i flussi migratori.

Quale dialogo condizionato sia possibile e auspicabile con Putin per replicare alle provocazioni di Mosca, ma anche per cooperare sugli interessi comuni. Se e come ripartire gli oneri della crisi umanitaria senza fine dei migranti, quale punto d’incontro fra responsabilità nazionali e solidarietà comunitaria, temi ancora divisivi: l’Italia, Paese di primo sbarco, è riuscita a imporre la questione a Bruxelles, ma non c’è ancora una soluzione sui ricollocamenti dei richiedenti asilo. Il transito verso il dopo-Merkel è a tinte grigie, impone tregue e rinvii e nel mentre lavora ai fianchi l’asse franco-tedesco. Il contesto europeo, complicandosi, può rilanciare o limitare lo spazio di manovra dell’Italia, allenata al realismo, con tutte le ricadute interne: perché se il discrimine è «di qua l’Europa e di là Orbán», anche per Salvini il sentiero si fa stretto.

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