Una riforma azzardata che scardina gli equilibri

ECONOMIA. Arriva in Consiglio dei ministri il disegno di legge di riforma costituzionale che prevede l’elezione diretta del presidente del Consiglio.

La scelta della premier Meloni è pienamente legittima, ma sono numerose le perplessità, sia sotto il profilo dei contenuti, sia per quanto riguarda la situazione del Paese. La mossa ha il sapore di un azzardo, che risulta poco comprensibile sotto diversi aspetti. L’obiettivo di modificare la Costituzione ha tutta l’aria di un tentativo di spostare l’attenzione della pubblica opinione su quel tema, mentre il Paese è in visibile sofferenza economica e di disagio sociale. La povertà cresce a livello preoccupante, l’economia stenta a riprendersi anche a causa dell’innalzamento dei tassi bancari, la legge finanziaria - che costituisce la spina dorsale della tenuta del sistema – sarà debole e, per di più, finanziata in buona parte a debito.

Un azzardo rispetto alle esigenze primarie del Paese in questo momento delicatissimo anche sul piano internazionale. Non minori sono le perplessità sul contenuto del disegno di riforma. La norma di maggiore rilievo prevede l’elezione diretta del presidente del Consiglio, che resta inamovibile per la durata della legislatura (cinque anni). Tale soluzione, si sostiene da parte delle forze politiche attualmente al governo, garantirebbe la durata degli esecutivi. Al premier viene anche conferito il potere di sciogliere le Camere e indire nuove elezioni. Siamo di fronte ad uno slittamento che potrebbe creare una slavina. A venire lesa sarebbe, in primo luogo, la figura del Presidente della Repubblica che dovrebbe soltanto prendere atto del nome della persona vittoriosa alle urne e che si vedrebbe tolta anche la facoltà di sciogliere le Camere. Il potere, dunque, quasi tutto nelle mani del presidente del Consiglio. Salterebbe in pieno il meccanismo di equilibrio tra i poteri sancito dalla nostra Costituzione e, soprattutto, verrebbe meno il ruolo di equilibrio assicurato, nei settantacinque anni di storia repubblicana, dal Capo dello Stato, ridotto a mero esecutore di decisioni riconducibili soltanto alla maggioranza di governo di volta in volta determinata dal voto popolare.

Si tratterebbe di una vittoria cara ai populisti (e ai populismi) di ogni genere, che fantasticano di «democrazie di base» e ai quali sfugge che le democrazie prevedono pesi e contrappesi. E, soprattutto, non prevedono un uomo (o una donna) «solo al comando». Vittoria di Pirro, poiché i sistemi plebiscitari - come dimostrano gli esempi del mondo intero – riescono spesso ad accedere alle leve del potere, ma fatalmente finiscono in rovina o sconfinano nella dittatura. Sul terreno dell’equilibrio dei poteri occorre procedere con estrema cautela. Camminare sulle uova, ammonisce un vecchio detto popolare. La politica, occorre non dimenticarlo mai, è basata sulla mediazione. Sulla ricerca delle soluzioni più idonee e con sistemi di controllo incrociato tra le Istituzioni.

La scelta di presentare in Parlamento un disegno di legge di riforma costituzionale fondata sul premierato rappresenta un azzardo, anche perché su tale soluzione non è emersa alcuna disponibilità da parte delle opposizioni (tranne l’avallo di Italia Viva). E, qui, l’errore di Giorgia Meloni appare macroscopico sul piano del metodo. Le modifiche della Costituzione dovrebbero sempre essere frutto di un confronto costruttivo tra maggioranza e minoranza. Non a caso la Costituzione italiana prevede una procedura tesa a garantire un consenso largo sulle modifiche da apportare. Il Governo attuale otterrà l’approvazione delle due Camere con il voto della maggioranza assoluta degli aventi diritto. Approvazione che, come si sa, deve essere confermata una seconda volta. E anche in tale circostanza il governo ha i voti necessari per procedere. Ma – con tutta probabilità - non riuscirà ad ottenere il quorum dei due terzi degli aventi diritto, previsto dall’articolo 138 della Costituzione. Di conseguenza, si dovrà andare al referendum confermativo. Esito non certo auspicabile, perché creerebbe una spaccatura piena di incognite in un Paese già lacerato da forti contraddizioni.

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