Un’eresia istituzionale
chiude la pazza crisi

L’ultimo atto che apre le porte al governo Conte bis nasce da un’eresia istituzionale: la consultazione sulla piattaforma Rousseau. Il consenso della base pentastellata al nuovo esecutivo e la partecipazione appaiono buoni per i parametri riduttivi dei Cinquestelle: 79,3% di «sì», circa 80 mila voti sugli oltre 100 mila iscritti alla piattaforma, mentre gli elettori sono stati 11 milioni. I toni trionfali di Di Maio e di Casaleggio si possono così capire, ma vanno ridimensionati. In un Paese a fantapolitica realizzata, è successo pure che la crisi più pazza del mondo sia stata risolta, come ultimo atto, da una variante eccentrica rispetto al dettato costituzionale, da un interlocutore del tutto anomalo. Qualche traccia indica una certa coerenza non entusiasmante fra le due situazioni. Quella della piattaforma Rousseau è una procedura di tipo privatistico che solleva riserve su metodo e sicurezza. La democrazia parlamentare, in sostanza, è rimasta in sospeso da un clic non prima, ma nel pieno delle consultazioni: già il Garante per la privacy aveva considerato la struttura a rischio manipolazione.

Detto questo e, se è lecito, chi ha vinto? Di Maio s’è ripreso la scena, s’è identificato, lui e Casaleggio, in un responso sul quale non avevano scommesso. Sull’ancora leader del movimento gravava il sospetto di voler giocare una partita tutta sua. L’asso vincente è del ritornante Grillo, quello delle origini, che ha dato le carte e la linea: il «sì» a Conte, il «no» alle poltrone, in pratica la sconfessione dell’arrembante Di Maio. Il governo nasce con tante buone intenzioni e analoghe ambiguità e con un limite originario imposto dai tempi. Senza possibilità di aver elaborato una maturazione psicologica e culturale, d’ambiente insomma, di aver potuto introiettare nei rispettivi elettorati le tossine di un calice amaro. Un po’ tutti i protagonisti hanno dovuto contraddire se stessi e ingoiare il rospo, sia pure a fin di bene se le parole hanno un senso.

Basta, però, l’essere tutti contro Salvini per cementare un’alleanza, per costruire un governo che addirittura ha l’ambizione non solo di durare tutta la legislatura, bensì di «cambiare l’Italia» (Zingaretti)? Di Maio, facendo buon viso a cattiva sorte, s’è riposizionato su un movimento che ha obbedito all’ultimatum di Grillo per portare i suoi su un terreno lontano anni luce dalla Lega: la seconda, e forse l’ultima chance, per non perire dopo essersi trasformato nella costola leghista. Di Maio stesso non ha sciolto tutte le ambiguità e che coprono un po’ tutto lo spettro dei Cinquestelle. Non c’è alcuna rottura politica con il passato, anzi si rivendica una continuità là dove, in teoria, il Pd aveva posto il discrimine della discontinuità nei nomi e nel programma: sul primo punto non c’è pure stata da parte di Zingaretti, che ha dovuto gestire un processo sul quale, almeno inizialmente, non credeva. Il problema rimane fermo al dispetto, all’abbandono del tetto coniugale da parte di Salvini, senza una condanna radicale e definitiva del fallimento di un governo felpastellato che ha portato l’Italia alla lesione dello Stato di diritto e all’isolamento in Europa. In questa situazione Conte si pone oggi come il punto d’equilibrio di una coalizione, ma non è ancora chiaro dove il probabile premier intenda collocarsi. L’avvocato del popolo fattosi avvocato dei cittadini non s’identifica tout court, con una buona dose d’ambiguità, con i grillini, che pure lo hanno espresso, cercando per sé un profilo super partes come vorrebbe Di Maio, perché nel frattempo il premier di ieri trasformatosi con abilità nel premier di oggi, occupa un posto nel consenso degli italiani, delle truppe parlamentari grilline e, come s’è visto, pure fra gli attivisti del movimento. Quasi un’investitura.

Insistere sul profilo «terzo» significa, per Di Maio, rilanciare la propria debole leadership alla guida del movimento, mentre il Pd vuole Conte targato Cinquestelle per vincolarlo alle proprie responsabilità e per evitare un pericoloso concorrente politicamente apolide e pigliatutto. Conte, Zingaretti, Di Maio, ciascuno nella propria postazione, sono obbligati a governare, e possibilmente bene, cominciando a svelenire il clima, far decantare la tensione, trovare parole e azioni d’inclusione. Può essere un’opportunità: se i grillini escono dalla prima infanzia e accettano la fatica responsabile della democrazia parlamentare, se il Pd recupera una sua autonomia concettuale e se non perde pezzi per strada.

La chimica dell’alleanza di governo non suscita entusiasmi: subisce l’effetto per sottrazione, secondo la logica dello «scampato pericolo» e del «male minore». Può, tuttavia, nei limiti dell’azzardo, essere anche un nuovo inizio verso percorsi sconosciuti, tutti da scoprire. Tocca ai nuovi governanti dimostrare che, pur dinanzi ad uno spericolato ribaltone, si cerca di superare una «disgrazia necessaria» e soprattutto si va oltre una «disgraziata necessità».

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