La Polonia volta pagina e rientra in Europa

EUROPA. Il vento dell’europeismo torna a soffiare forte nel Vecchio continente.

A meno di sorprese «in zona Cesarini» nello spoglio ufficiale, la Polonia non sarà più un caposaldo dell’euroscetticismo, insieme all’Ungheria di Viktor Orban, come succede ormai dal 2015.Di conseguenza alcuni degli equilibri in seno all’Ue, adesso, cambieranno. È stato necessario il ritorno in patria del centrista Donald Tusk dopo la parentesi alla presidenza del Consiglio europeo - per ridare energia al fronte liberale-riformista. Il suo elettorato ha votato in massa, come non mai, riuscendo a riequilibrare il tradizionale zoccolo duro del 30-35% dei conservatori e ultranazionalisti. Così, come successo in luglio in Spagna, chi ha preso più voti alle urne - non raggiungendo, però, la maggioranza assoluta - non è in grado ora di formare un governo. Al contrario, i liberali-riformisti, arrivati secondi, possono contare sul sostegno di altre due forze politiche e di un’ampia maggioranza parlamentare.

L’unico dubbio, che rimane, è se una di queste due forze, alleate di «Piattaforma civica», abbia superato o meno la barriera dell’8% per avere una rappresentanza alla «Dieta». In caso contrario, si dovranno rifare tutti i conti, ma l’eventuale attuale vittoria di Pirro indebolirebbe terribilmente in casa e in Ue - i seguaci di Kaczynski, il quale ha in Tusk la sua bestia nera. Comunque sia, la Polonia oggi esce dal vicolo cieco in cui si era cacciata negli ultimi anni. Ricordiamo ancora le lacrime di felicità della gente il 1° maggio 2004, quando la bandiera comunitaria venne issata nel cielo di Varsavia, segnando la fine di secoli bui, appesantiti da una sfortunata geopolitica e dalla presenza di vicini troppo prepotenti. Davanti al pericolo dall’Est, cosa succederebbe oggi in una Polonia fuori da Ue e Nato?

Gli otto anni di Tusk come primo ministro, dal 2007 al 2014, hanno rappresentato il «miracolo economico» della Polonia, diventata la terza area di maggiori investimenti diretti al mondo. L’Occidente, del resto, doveva scusarsi per aver abbandonato i polacchi tra le grinfie di Stalin nel 1945. Grazie ai fondi europei - che non sono stati assolutamente sprecati, ma spesi con oculatezza - il Paese slavo è stato tirato fuori da una spaventosa arretratezza «alla sovietica» ed è diventato la sesta economia continentale. L’unica pecca allora fu che le province e alcune delle fasce più umili della popolazione non godettero appieno di tale crescita.

Così, quando il corso nazionale sembrava ormai deciso, la Polonia di Kaczynski ha iniziato a litigare con la Commissione europea su principi cardini del sistema democratico come ad esempio quello dell’indipendenza della magistratura e delle libertà personali. Con una guerra ai suoi confini, con gravi pericoli nei cinque continenti, l’Unione europea ha bisogno oggi di una Polonia salda, quella Polonia che scrisse la seconda Costituzione al mondo nel 1791 e che oggi ospita quasi due milioni di profughi ucraini.

E se sarà Tusk premier, come ormai pare certo, Varsavia godrà di forti sponde a Bruxelles. Già presidente del Partito popolare europeo, il primo ministro del boom economico polacco conosce bene la «sala dei bottoni» continentale e diventerà un leader di riferimento per le prossime riforme che l’Unione si appresta a varare. Domenica, con un’affluenza alle urne record la Polonia è tornata. Populisti, nazionalisti, sovranisti, xenofobi e impresentabili sono stati ridimensionati. Fondamentale ora per Tusk e gli europeisti sarà non ripetere gli errori passati e smorzare politiche in apparenza troppo divisive.

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