Populismo, quel male che si stenta ad arginare

ITALIA. La crescita rallenta e minaccia di sfociare in recessione. 140 miliardi se li è mangiati il Superbonus. L’esplosione del turismo che si attendeva per quest’estate è stata più contenuta del previsto. 13 miliardi vanno destinati al pagamento degli interessi sul debito pubblico.

Lo spread è salito e minaccia di oltrepassare la soglia simbolica dei 200 punti. Addio alle risorse con cui Meloni sperava di varare almeno alcune delle mirabolanti promesse della campagna elettorale. Il governo ne ha preso atto. Nella Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza Giorgetti si è limitato a confermare la riduzione del cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti al di sotto di un reddito annuo di 35mila euro, ad aumentare le buste paga di medici e infermieri e a ritoccare gli assegni minimi dei pensionati.

Un ceto politico responsabile si eserciterebbe a trovare una via d’uscita da una situazione che può diventare drammatica. Lo spettro del 2011, quando ci trovammo sull’orlo del precipizio, superato il quale saremmo caduti nel gorgo del default, ha cominciato a circolare nei mercati finanziari. In un Paese normale tutto ciò basterebbe a raffreddare i bollenti spiriti dei demagoghi di turno. Invece, non si contano quanti, sperando di trarre profitto dalle difficoltà del governo alle prese con il ridimensionamento delle sue originarie velleità di spesa, si sono messi a cavalcare il cavallo indomabile del populismo demagogico.

L’aspetto più sconcertante è che in prima fila si è posto un partner della stessa maggioranza. Salvini non perde occasione per richiedere generosi interventi un po’ su tutto: pensioni, estensione della flat tax, abbassamento delle aliquote Irpef, ponte di Messina, fondi aggiuntivi per le forze dell’ordine. Rigorosamente senza indicare coperture di spesa, il che si risolve in una forma di assedio del governo. Non se l’è fatto dire due volte l’opposizione - come c’era da aspettarsi - a cercar di azzoppare il governo. È il suo mestiere del resto. Lo sta facendo però puntando ad inchiodare la destra al tradimento delle sue spericolate promesse di quand’era all’opposizione. Tutto bene, se accompagnasse il proprio attacco con controproposte credibili. Al contrario, preferisce giocare al rialzo degli impegni finanziari.

Ci risiamo con il mal di populismo. Siamo il Paese europeo con la più alta tentazione a spararla grossa in fatto di spesa pubblica quando non si è al governo - o, per lo meno, non se ne ha la direzione. È la scorciatoia più facile per allargare il consenso elettorale. È un male difficile da combattere, anche perché è di antica data. Per cinquant’anni abbiamo avuto un sistema bloccato in cui chi era all’opposizione, sapendo che non sarebbe mai stato chiamato a responsabilità di governo, poteva largheggiare nel reclamare ogni tipo di spesa. A ostacolare il cammino che ci porterebbe a diventare un Paese normale, pesa un’altra zavorra. Le nostre tradizionali culture politiche di massa hanno alimentato un’identità collettiva di estraneità, quando non di ostilità, allo Stato. Per molte ragioni: vuoi perché lo consideravano ostaggio di una classe dirigente nemica (per i cattolici post-unitari era una cricca massonica in lotta contro la Chiesa), vuoi perché lo combattevano come alleato della borghesia, il loro nemico di classe (socialisti e comunisti). Le vecchie ideologie hanno perso per strada le loro ragioni d’esistere. Tuttavia, le tossine che avevano immesso nelle vene della società vi continuano a circolare.

Il risultato è che i partiti faticano a liberarsi dall’inclinazione populista. Ne sa qualcosa Meloni, alle prese con una cura di disintossicazione dalla droga del populismo. Di sottoporsi alla stessa cura non ne vogliono sentire invece i partiti. È troppo forte la tentazione a procurarsi l’euforia che nasce dal facile consenso ottenuto. Peggio per loro – pensano - se ormai gli elettori (5 su 10) non se la sentono più, non dico di votarli, ma semplicemente di votare.

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