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Imprenditori, smettete di inseguire il modello Silicon Valley

Articolo. I finanziamenti all’innovazione sono sempre più il risultato di quanto l’ecosistema del territorio riesce a sollecitare risorse. Ma emulare il modello della valle del silicio è un errore: lo startupper bergamasco Mattia Pavoni, in questa intervista, spiega perché direttamente dalla Valley

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L’innovazione ha bisogno di capitali

«Qui ci sono milioni di startup, tanto capitale, e anche tanta competizione. Ma la Silicon Valley per gli imprenditori italiani non è un traguardo a cui ambire o da replicare».
A parlare è Mattia Pavoni, bergamasco doc, imprenditore di successo nel paradiso tecnologico della Silicon Valley, giunto in suolo americano nel 2017 con un progetto elaborato con alcuni compagni d’università e il biglietto d’ingresso stretto fra le mani per uno dei più importanti incubatori d’innovazione. Mattia Pavoni vanta un curriculum di tutto rispetto e per questo confrontarsi con lui significa, in particolare, misurarsi con un imprenditore che, conoscendo due culture imprenditoriali ed economiche distinte, aiuta a mettere un sano divario fra la realtà italiana ed europea dell’innovazione e quella coltivata dall’altra parte dell’oceano. La valle del silicio, infatti, per quanto attrattiva, affascinante e potente per la sua carica di modelli innovativi non va guardata dagli italiani come un traguardo da emulare, piuttosto come una risorsa da sfruttare, sia per le giovani startup sia per le aziende innovatrici.

Nel raccontare la sua esperienza Pavoni non intende fare paragoni, perché, come spiega, «è impossibile farli. Questa regione della California è la culla delle startup da generazioni ed è un ecosistema molto diverso rispetto ad altre regioni del mondo». Non si tratta soltanto della capacità dei grandi investitori di intuire e intravedere nei gruppi di giovani talenti che ogni mese arrivano in Silicon Valley quali siano i progetti più lungimiranti, si tratta di entrare in una cultura in cui innovazione, grandi capitali e rischio d’impresa, spesso con fallimento finale, convivono molto vicine e condividono tempistiche estremamente veloci, come la storia dello startupper e dei suoi colleghi, tutti italiani, dimostra.

Determinante il rapporto con gli incubatori: da noi le risposte arrivano in tempi lunghissimi contro investimenti che si decidono in 24 ore

Mattia Pavoni, Ciro Greco e Jacopo Tagliabue sono i tre fondatori di Tooso, una piattaforma di intelligenza artificiale progettata per migliorare i servizi di ricerca per parole chiave destinato ai servizi di e-commerce. «Ciro è un esperto di linguistica formale, convinto che le lingue abbiamo una struttura formale comune - spiega Pavoni -, e su questo presupposto abbiamo sviluppato il nostro software, lavorando per ottimizzare la ricerca del cliente all’interno dei siti e-commerce». A seguire lo startupper si spiega meglio: «I giganti dell’e-commerce come Amazon, o della ricerca online come Google, hanno sistemi di comprensione delle ricerche lanciate dall’utente elevatissimi, ma la maggior parte dei siti, anche di brand noti, nella propria sezione di e-commerce ha un motore di ricerca che non intuisce ciò che l’acquirente desidera». Da qui l’idea di sviluppare un software specializzato in semantica, in grado di ottimizzare il sistema di selezione delle informazioni di un qualunque cliente e vendere il servizio al mercato del commercio online. Per quale motivo il progetto non sia mai stato nemmeno presentato negli incubatori o agli investitori italiani è lo stesso Pavoni a spiegarlo: «All’inizio del progetto io vivevo a Monaco di Baviera, Jacopo a New York, Ciro in Belgio, perciò nessuno di noi aveva un rapporto con l’ecosistema italiano. Nel momento in cui abbiamo capito che la nostra idea era matura abbiamo banalmente consultato Forbes, guardato la lista dei dieci migliori incubatori al mondo e abbiamo inviato il progetto».  Ciò che sembra semplice, come presentarsi a un incubatore internazionale, in realtà ha chiesto mesi di lavoro per consegnare tutta la documentazione richiesta, ma alla fine i tre giovani italiani ce l’hanno fatta e nel giro di poche settimane sono stati convocati per prendere posto nella loro nuova sede: l’Alchemist accelerator, nella San Francisco bay area. 

Una risposta in meno di 24 ore

«Gli acceleratori funzionano così - spiega Pavoni, - Gli investimenti si decidono in 24 ore. C’è un form, un modello non semplice, da compilare da cui selezionano il 5% delle startup che fanno richiesta, segue un’intervista in videochiamata di 30 minuti e nelle successive 24 ore ti danno una risposta. Noi siamo stati accettati avendo diritto a circa 110mila dollari di finanziamento in due tranche, ma la questione finanziaria non è la più importante, perché in realtà qui i soldi si investono molto velocemente. È più importante il blasone che l’acceleratore conferisce alla tua startup, il metodo con cui ti insegna a impostare il tuo business, a intercettare e recuperare i finanziamenti che ti servono, ad assumere i profili corretti , a firmare, proporre e gestire i contatti».

 
Cambiano anche i modelli di acceleratori di nuove imprese. Ora il mercato si sta concentrando sulla fornitura di servizi e della formazione

Questa velocità di azione e pensiero è impensabile nel mercato europeo e italiano perché l’ambiente di lavoro e di sviluppo dei progetti è molto diverso, è differente la cultura dell’investimento e il volume di capitali a disposizione è incomparabile. Persino il clima che permette alle startup di entrare in contatto fra loro e svilupparsi velocemente non è replicabile.

Giacomo Biraghi, responsabile innovazione di Confindustria Bergamo che ha recentemente guidato alcune aziende lombarde nella techmission del Ces di Las Vegas a conoscere alcuni giovani imprenditori della Silicon Valley, tra cui Mattia Pavoni, aggiunge un altro pezzo di questa visione: «In Italia sono nate e si stanno sviluppando figure intermediarie che aiutano gli imprenditori a capire come investire», ma oltre al coraggio e alla lungimiranza, la questione dei capitali a disposizione resta cruciale, tanto più se il confronto è con una regione, come la valle del silicio, che si inserisce fra le prime dieci economie al mondo.

La velocità è un fattore competitivo

Non solo, in California il mondo delle startup cambia così velocemente che avviare un meccanismo di concorrenza sarebbe ancora più fallimentare. Dove sta andando ora quel mondo lo spiega Pavoni: «Anche gli acceleratori adesso sono sotto la lente di ingrandimento in America, perché stanno perdendo appeal. L’acceleratore è molto meno decisivo rispetto a prima e il business sta cambiando.

L’obiettivo non è più il successo della startup, ma la sua coltivazione, la fornitura di servizi, formazione, assistenza che genera un mercato». Questo non significa che certi mercati sono tagliati fuori dall’innovazione, tutt’altro. Ciò che ancora gli italiani sanno fare, come ben dimostrato dai connazionali della Silicon Valley, è prendere una tecnologia già esistente e ottimizzarla per le esigenze di un mercato specifico. Su questo tipo di business la mentalità imprenditoriale nostrana può ritagliarsi una fetta di mercato importante, trasformando la baia californiana in un pozzo da cui attingere idee e possibilità da customizzare a misura di un particolare settore. 

Le sei domande all’ecosistema bergamasco

  • 1 - Le aziende investono nelle nuove aziende innovative?
    Sta crescendo nel mondo il venture capital corporate, gli investimenti diretti delle imprese nello sviluppo o a supporto di nuove startup. Quante aziende del territorio stanno facendo questo investimento?
  • 2 - Perché si finanzia l’innovazione ancora con il fatturato?
    La sensazione, ormai certificata da diversi dati, è che l’innovazion oggi sul territorio si finanzia prevalentemente accantonando una parte del fatturato. Quanto resta imbrigliata la corsa all’innovazione?
  • 3 - Il territorio riesce a generare le idee giuste?
    Il capitale è importante. Ma certamente non basta. Una volta liberate le risorse, trovati i finanziamenti, il territorio è sufficientemente ricco di idee giuste e quanto è preparato a realizzarle?
  • 4 - L’innovazione ha iniziato a trasformare anche i modelli di business?
    La decisione verso l’innovazione da portare in azienda è ancora molto orientata a mantenere i clienti secondo criteri tradizionali. Cosa manca perché innovare significhi anche nuovi modelli di business?
  • 5 - Quante aziende vogliono crescere rapidamente con l’innovazione?
    Il venture capital, il capitale portato da un investitore, serve alle imprese che vogliono una innovazione spinta, che moltiplichi il loro valore di mercato. Quante imprese oggi vogliono questo obiettivo in tempi veloci?
  • 6 - La collaborazione con le startup: esiste?
    La capacità di attrarre investimenti dipende molto anche dalla collaborazione fra imprese e startup su progetti concreti per poi scalare le nuove tecnologie. A Bergamo cosa manca di questa relazione?