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Welfare aziendale una leva flessibile per frenare la fuga dei dipendenti

Articolo. Efficace, si può introdurre con un semplice regolamento o come risultato di un accordo con l’azienda, possono essere legati alla produttività: questo strumento diventa sempre più elemento strategico contro i momenti di crisi, ma anche come pilastro di attrattività per i giovani migliori. Con un’attenzione: abbracciare un approccio da welfare territoriale, a “filiera corta”

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Conciliare vita-lavoro: una priorità

Esiste uno strumento per supportare economicamente i propri lavoratori a costi ridotti convincendoli a rimanere in azienda senza scappare dalla concorrenza, si chiama welfare aziendale. Si tratta di quell’insieme di dispositivi in denaro e servizi forniti ai dipendenti dalle aziende private e dallo Stato (nella sua veste di datore di lavoro), come conseguenza del rapporto di lavoro che intercorre fra i primi e i secondi, con l’obiettivo di accrescere il benessere dei dipendenti e dei loro familiari (approfondisci qui). Previdenza complementare, sanità integrativa, mobilità e trasporto e conciliazione vita-lavoro sono solo alcuni dei tasselli che compongono l’universo del welfare in azienda.

Il recente rapporto Adapt-Intesa San Paolo (vedi qui) ha messo in evidenza come a livello d’impresa tra il 2016 e il 2020 la materia della flessibilità organizzativa e della conciliazione vita-lavoro ha rappresentato il 70% delle misure di welfare contrattate. A seguire vi sono le previsioni sulla formazione in ambito professionale dei lavoratori dipendenti (57%), erogata sia attraverso fondi interprofessionali sia mediante ulteriori modalità, la categoria mensa e buoni pasto (40%) e le disposizioni sui buoni acquisto e sui flexible benefits (27%). Non da ultimo, mantengono un certo peso gli ambiti dell’assistenza sanitaria integrativa (18%) e della previdenza complementare (15%).

In ambito aziendale, iniziative di questo tipo possono essere messe in piedi attraverso un intervento unilaterale da parte dell’impresa, con un semplice regolamento, oppure possono essere il frutto del dialogo e del confronto tra le parti datoriali e sindacali in un processo strutturato di individuazione dei bisogni primari dei lavoratori e dell’impresa stessa.

Una platea di 2 milioni di lavoratori

In base alle rilevazioni fatte dal ministero del Lavoro sono oltre 12mila i contratti aziendali siglati da imprese e sindacati che prevedono strumenti premiali legati alla produttività. Come ripreso dal rapporto Secondo Welfare (vedi qui), sono oltre 7mila al 2021 «quelli che prevedono anche misure di welfare e la possibilità di conversione del premio: oltre il 58% del totale. In tutto interessano 1.949.262 lavoratori, che ricevono un premio welfare dal valore medio annuale pari a 1.500 euro».

 

A livello di contrattazione collettiva nazionale, «sono circa 2.416.647 – impiegati in 159.360 imprese – i lavoratori che hanno diritto a delle quote di welfare aziendale (o fringe benefit) grazie al proprio Ccnl di riferimento. In totale sono circa l’11% delle imprese con dipendenti e circa il 14% dei lavoratori dipendenti del nostro Paese (Istat 2021)».

Non c’è dubbio che la pandemia abbia impattato sulla possibilità di negoziare rinnovi e nuove iniziative di welfare. Tuttavia, come emerge dal rapporto, «dalla crisi economica iniziata nel 2008, infatti, il welfare aziendale è uno strumento che tende a diffondersi soprattutto a seguito di momenti di difficoltà, in particolare per il fatto che si tratta di interventi che hanno un vantaggio sia per l’impresa (in termini fiscali) sia per i lavoratori (in termini economici e di benessere). È quindi plausibile che, al termine della crisi pandemica, nel corso dei prossimi mesi, assisteremo ad un rinnovato sviluppo di questa materia a livello contrattuale e non».

Un welfare territoriale, «a filiera corta»

Occorre però uscire dal perimetro delle singole aziende per abbracciare tutto il territorio. È questa la nuova prospettiva del welfare a “filiera corta”, ossia quella forma di welfare aziendale incline ad attivare risposte in grado di mettere a rete i diversi attori territoriali. Un esempio è il progetto Beatrice della Val Seriana, una rete territoriale dei servizi a disposizione dei cittadini e dei lavoratori delle aziende del territorio. Il welfare così concepito permette infatti anche alle micro e piccole aziende di fare squadra per la definizione di alcune pratiche che sarebbe difficile, se non impossibile ed eccessivamente dispendioso, implementare in autonomia.

Valentino Santoni

Esperto di Secondo Welfare

Lo conferma l’esperto di Secondo Welfare Valentino Santoni: «per le Pmi adottare questi strumenti significa creare politiche di legame con i dipendenti. È un’opportunità strategica anche per creare nuove relazioni con le parti sociali a livello aziendale e territoriale. In molti casi è un modo per riavvicinarsi a seguito di momenti di conflitto. Il problema è che le Pmi sono spesso escluse da questi processi per la mancanza di risorse economiche ma soprattutto delle competenze utili a mettere insieme i piani. È difficile articolare le misure.
Per questo motivo, la strategia deve essere quella di incentivare le reti e le alleanze tra imprese e gli altri attori territoriali. Si possono adottare formule di joint venture, reti di imprese ma anche alleanze e associazioni di scopo. È importante condividere informazioni. Non da ultimo – conclude Santoni – l’attore pubblico è chiamato a giocare un ruolo di primo piano mettendo a disposizione le risorse che servono. Un modello virtuoso è ad esempio quello dei voucher per l’acquisto di servizi con il coinvolgimento delle realtà economiche locali, creando un vero e proprio ciclo virtuoso per tutti soggetti coinvolti: lavoratore (benessere), impresa (benefici fiscali) e realtà locali (convenzioni e sostegno economico). Anche il terzo settore può dare una grande mano nel definire piani sociali di conciliazione vita lavoro, ampliando lo sguardo del welfare anche su questi aspetti».

Dal rapporto di Secondo Welfare, è poi emerso come il welfare aziendale territoriale si sia dimostrato uno strumento utile a contrastare molti disagi causati dalla pandemia, mettendo in cima alla lista la sanità integrativa anche attraverso un aumento degli interventi unilaterali da parte delle imprese.

 

A supporto di un approccio territoriale e collettivo è in prima linea anche Regione Lombardia con lo stanziamento di oltre 5 milioni di euro per la diffusione di iniziative di welfare aziendale utili alla conciliazione vita e lavoro (vedi qui per approfondire il bando). I progetti dovranno essere presentati da partenariati pubblico-privati composti da almeno quattro enti, di cui due devono obbligatoriamente essere una micro e/o piccola impresa e uno un ente pubblico. Tra le iniziative che possono essere promosse vi sono la corresponsabilità dei compiti di cura, l’armonizzazione tra vita privata e vita professionale anche al fine di garantire una maggiore parità tra uomini e donne, e i servizi di assistenza/supporto al caregiver familiare.

I fondi per un programma di welfare

Da qui in avanti i soldi per investire in welfare non mancheranno. Il Pnrr riserva infatti ingenti risorse che potranno essere adoperate anche per favorire questo tipo di interventi. In particolare, tra la missione 5 (Inclusione e coesione), la missione 6 (Salute) e la missione 3 (Infrastrutture per la mobilità sostenibile) ballano un totale di circa 60 miliardi di euro, che, tra le altre cose, potranno essere utilizzati per incentivare la conciliazione vita-lavoro (flessibilità oraria, estensione dei congedi parentali e familiari, convenzioni o servizi per i lavoratori con figli), il welfare a sostegno della cura degli anziani e il welfare di mobilità per la diffusione, ad esempio, di car o bike sharing.

Come messo in evidenza da uno studio del Censis, per i responsabili delle risorse umane l’interesse è palpabile, anche per favorire il trattenimento dei migliori talenti in azienda. Occorre però fare uno sforzo sulla semplificazione e la diffusione delle informazioni tra le imprese su quelle che sono le opportunità. «Tra gli ambiti di welfare aziendale prioritari, - si legge nel rapporto - sono indicati salute, malattia e non autosufficienza (84,4%), cura e gestione dei figli (ad esempio baby-sitter, asili nido, ecc.) (84,4%) e gestione di un familiare non autosufficiente (84,4%), a cui seguono bilanciamento tra vita privata e lavoro (75%), istruzione e formazione dei figli (73,4%), supporto al reddito, potere d’acquisto (60,9%), pensione, reddito da vecchiaia (51,6%) istruzione e formazione dei figli (73,4%)». Il vero problema non è l’interesse, ma mettere le cose a terra. «Per il 92,2% dei responsabili Hr – continua il rapporto - occorrerebbe attivare nelle aziende un’attività di accompagnamento dei lavoratori al welfare aziendale, per informarli, supportarli nell’identificare i loro bisogni e orientarli anche sui servizi. Tale attività per il 71,9% andrebbe creata o potenziata nella propria azienda».

Guardando ai prossimi passi, «per il 93,8% servono maggiori benefici fiscali, per l’85,9% più servizi e prestazioni personalizzati su profilo ed esigenze dei lavoratori (ad esempio, in base a età, genere, tipologie familiari, ecc.), per il 78,1% un’informazione più puntuale su servizi, prestazioni, modalità di accesso, ecc». Infine, non si può non menzionare il ruolo centrale che il welfare aziendale giocherà per il riordino e il rafforzamento delle misure di sostegno all’educazione dei figli, al lavoro femminile, alla condivisione della cura e all’armonizzazione dei tempi di vita e di lavoro previste dall’articolo 2 e dall’articolo 4 del Family Act (approfondisci qui).

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