I mafiosi, Napolitano
e il senso dello Stato

Non era mai accaduto e sarebbe stato auspicabile che mai accadesse. Che il presidente della Repubblica, il primo cittadino del nostro Stato così malandato, fosse posto nella condizione di accettare o meno di rispondere alle domande di inquirenti e avvocati in un processo di mafia, è cosa che ha scandalizzato molti, e non senza ragione.

Per poco non è accaduto che anche Totò Riina fosse presente, sia pure in videoconferenza, alla deposizione al Quirinale, una enormità che per fortuna è stata evitata. Uno scandalo motivato inoltre dall’opinione che molti hanno sul processo in sé, ritenendolo appeso a teoremi, congetture, rivelazioni interessate, e soprattutto volto a dimostrare una tesi più giudiziaria che politica: che lo Stato, all’inizio degli anni ’90, avrebbe trattato con la mafia corleonese sotto il ricatto delle stragi e soprattutto per paura di attentati ai politici.

E, mandando suoi uomini a trattare con Riina attraverso l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, le istituzioni avrebbero accettato di allentare la presa dell’articolo 41bis, quello del carcere duro per i mafiosi. Una tesi non ancora provata da una procura come quella di Palermo nota per avere un’idea, come dire? peculiare, dei propri poteri.

Napolitano avrebbe potuto legittimamente sottrarsi a questa deposizione: era nei suoi poteri. Tanto più che il capo dello Stato aveva già messo per iscritto in una lettera ai giudici palermitani che nulla avrebbe potuto dire a proposito di questa presunta «trattativa» perché nulla sapeva, non avendo nei primi anni ’90 alcun ruolo di governo e rivestendo la carica di presidente della Camera.

E nello stesso tempo Napolitano aveva già detto che nulla avrebbe potuto aggiungere anche sulla famosa lettera ricevuta dal suo consigliere giuridico D’Ambrosio in cui si accennava all’ipotesi di «indicibili accordi», non meglio precisati dall’autore. D’ambrosio purtroppo si è portato le sue opinioni nella tomba, stroncato da un infarto nel pieno della campagna mediatica contro di lui e contro le sue telefonate (intercettate) con Nicola Mancino che compare nel processo come indagato in quanto ministro degli Interni dell’epoca.

Bene, Napolitano ha deciso di non dire: non vi avvicinate nemmeno al Quirinale. Il suo vecchio amico Emanuele Macaluso lo aveva consigliato in tal senso: non fare questo regalo al partito dei giustizialisti - Ingroia, Travaglio, la Guzzanti, Grillo e compagnia - che aspettano solo questo momento per trascinarti nella polvere. E invece il Presidente ha deciso di accondiscendere alla richiesta, ha ricevuto la Corte d’Assise palermitana nel Salone del Bronzino in una udienza a porte chiuse ma non segreta, ha risposto a tutte le domande, non si è sottratto nemmeno sulle voci di attentati ai danni suoi e di Spadolini in quegli anni, e anzi ha sollecitato i magistrati a sbrigarsi nel rendere pubblica la trascrizione della seduta perché non ci siano strumentalizzazioni e verità interessate.

Così facendo Giorgio Napolitano ha dato una lezione di democrazia e di civiltà che tutti, a parte i grillini e i giornalisti del «Fatto», gli hanno riconosciuto. La sua disponibilità è stata sufficiente a smontare la montagna di panna montata che alcuni si apprestavano a scalare. Il pm Di Matteo, commentando la deposizione, ha detto che l’udienza è stata utile perché dalle parole di Napolitano si è capito che la mafia con le stragi tentava di piegare lo Stato e di fargli paura.

Questo, consentirà il dottor Di Matteo, lo avevamo capito tutti e non c’era bisogno dell’autorevole avallo del presidente della Repubblica per sostenere una cosa che è scritta anche nelle tesi di laurea. Se ai magistrati della procura di Palermo questo basta, buon per loro ma la loro tesi processuale sull’esistenza di una trattativa non ha fatto un solo passo in avanti con la deposizione di ieri. Fortunatamente però Napolitano ha evitato che l’episodio si tramutasse in un gigantesco colpo alla credibilità delle istituzioni italiane, merce purtroppo rara sui tavoli internazionali.

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