Il sogno europeo
in crisi d’identità

Gli ultimi anni hanno visto crescere il travaglio dell’Ue, in particolare, le difficoltà ad affrontare con una strategia unitaria la questione dei migranti, della disoccupazione, la crescita dei muri reali e di quelli ideologici e, da non sottovalutare, l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione. Il tutto accompagnato da agitati e, molte volte divisivi, incontri tra i capi di governi europei alla corte di Frau Angela Merkel. Si è in molti, anche di sicura fede europeista, a chiedersi dove andrà a finire l’Europa e a interrogarsi sul senso che può ancora avere il grande sogno europeo che ci ha accompagnato, alimentando grandi speranze, dal secondo dopoguerra all’altro ieri.

Un momento importante di verifica c’è stato a Bratislava con il Vertice informale dei capi di Stato e di governo per orientarsi nel dopo Brexit. La situazione non è facile se il presidente Jean-Claude Juncker ha evocato l’esistenza di una «crisi esistenziale» dell’Ue. Tra i problemi di fondo, un posto centrale l’occupa il tema di una crescita estremamente debole e l’esigenza di margini di flessibilità dei conti pubblici nazionali; il permanere di un livello troppo alto di disoccupazione, su cui servirebbe un impegno unitario dell’Ue per destinare nuove e maggiori risorse agli investimenti e una volontà comune per affrontare la grande e complessa questione dell’accoglienza dei rifugiati, con le richieste di asilo quadruplicate rispetto negli ultimi cinque anni.

Sono molte le persone disperate che hanno puntato sull’Europa, per arrivarci hanno subito violenze, fame, angherie e predazioni. Sono persone semplici che cercano di fuggire dalla povertà e trovare un luogo (l’Europa) dove sia possibile costruire una vita migliore per sé e le loro famiglie. Sono loro la vera sfida che sta di fronte a noi europei e a quel complesso di riferimenti che abbiamo definito civiltà. Questa può essere vista come un problema di sicurezza che richiede un controllo e la chiusura delle frontiere, oppure come un problema umanitario: non ci sono soluzioni facili alla questione poiché mette in movimento e incrina molte delle nostre certezze.

Se vogliamo veramente essere umanitari, dobbiamo smettere di minimizzare le tensioni e le turbolenze sociali generate da queste ondate di arrivi e partire dalla consapevolezza che essi sono il nostro prossimo perché condividono la dimensione comune dell’essere umani, ma che non sono come noi e che non dobbiamo proporci di assimilarli, ma di riconoscerli nella loro diversità culturale e religiosa. Per questo amare questo prossimo come se stessi non è mai semplice e non basta l’afflato umanitario. C’è un qualche cosa di più profondo in questi arrivi che forse non riusciamo a comprendere nella sua complessità. È facile parlare di accoglienza pensando che gli altri siano buoni. E se non lo sono? Cosa dobbiamo fare? Partire dalla comune appartenenza al genere umano in cui vivono tante debolezze e limiti, e aiutarli lo stesso, cercando di costruire, attraverso la responsabilità di tutti, la possibilità di una vita dignitosa per chiunque sorpassi le nostre frontiere di terra e di mare. È su questo che si misurerà se il processo di civilizzazione europea ha una consistenza concreta, oppure se si colloca nel regno delle astrazioni.

Inoltre, va tenuto sempre presente, quando parliamo d’Europa, che i Paesi mediterranei sono quelli che oggi soffrono di più e che sono affetti da una patologia che agisce sugli ambiti fondamentali dell’economia e che frena ogni possibilità di crescita, di distribuzione equa del reddito e di lavoro.

Nello stesso tempo non possiamo sottovalutare le tensioni che stanno nascendo con i Paesi dell’Europa dell’Est sul piano della democrazia e dei riferimenti ai valori fondativi dell’Unione europea. Sullo sfondo pesa l’ombra lunga di Brexit, e in particolare l’assenza di una elaborazione da entrambe le parti di un «exit strategy». Non sembra aver rasserenato significativamente questo clima la «tournée» estiva di Angela Merkel che ha incontrato la quasi totalità dei governi Ue, ad esclusione di quelli meridionali, con l’eccezione di Italia e Francia.

Il vertice di Bratislava (in Slovacchia, Paese che presiede l’attuale semestre europeo), è pertanto un passaggio importante per capire se c’è la voglia di tentare di comporre un «puzzle» che si annuncia complicato e che è stato preceduto da un discorso sullo stato dell’Unione – pronunciato davanti al Parlamento europeo dal Presidente della Commissione Jean-Claude Juncker – molto timido e teso più a rassicurare le opinioni pubbliche nazionali che a rilanciare il progetto di integrazione europea. Prospettiva che, con i chiari di luna che caratterizzano questa Europa sfiduciata e aggredita da movimenti populisti e xenofobi, sembra per ora di là da venire. Il nostro sguardo deve ora volgersi a Bratislava e alle proposte che verranno messe in campo e intercettare quelle che stanno nascoste, fuori dal campo, e sotto il tavolo delle discussioni ufficiali.

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