In declino la politica
estera di Obama

Obama aveva concluso da poche ore il suo ultimo viaggio in Asia - considerato il canto del cigno della sua attività internazionale - quando la Corea del Nord ha effettuato - quasi come uno sberleffo - il suo quinto test nucleare, di una potenza di poco inferiore a quello della bomba di Hiroshima, e comunicato di essere ormai in grado di montare testate atomiche sui vari missili che, nonostante le diffide dell’Onu sperimenta in continuazione.

Oltre a provocare la reazione unanime degli Stati vicini, questa ennesima sfida di Kim Jong-un all’America è una ulteriore dimostrazione che la storica (e controversa) decisione del presidente di trasferire il focus della politica estera americana dall’Atlantico al Pacifico non è stata un successo. I suoi tentativi di fermare i nord-coreani sono naufragati, il miglioramento dei rapporti con la Cina si è limitato a un (ancora teorico) accordo sulla riduzione dei gas serra, mentre gli sforzi per fermare i tentativi di Pechino di imporre la propria egemonia sul Mar Cinese meridionale non hanno prodotto risultati.

I tradizionali alleati - dal Giappone alle Filippine - si fidano sempre meno della protezione offerta da Washington. Neppure la politica - molto criticata in Patria - di riconoscere i torti americani verso il Giappone, il Vietnam e il Laos (oltre che verso Cuba e l’Argentina) ha dato grandi frutti. Risultato: nonostante le premesse, negli otto anni della presidenza Obama l’influenza degli Stati Uniti nell’Asia orientale è sensibilmente diminuita.

Purtroppo per lui, il bilancio non è positivo neppure sugli altri fronti, soprattutto quello mediorientale. Il senno di poi dimostra che fu un grave errore considerare le «primavere arabe» come conati di democrazia e fornirle loro incoraggiamenti ed appoggi. In Libia l’eliminazione di Gheddafi ha prodotto il caos, in Egitto il breve esperimento dei Fratelli musulmani si è risolto in un ritorno a una dittatura militare, in Siria la ritrosia americana ad intervenire quando Assad ha usato le armi chimiche è risultata nella perpetuazione della guerra civile e, poco dopo, nel massiccio ritorno della Russia sulla scena mediorientale.

Sostanzialmente fallito è anche il tentativo, che aveva segnato soprattutto il primo mandato del presidente, di una riconciliazione con il mondo islamico: i rapporti con l’Arabia saudita, alleato di sempre, sono a un minimo storico, quelli con l’Egitto non vanno molto meglio e quelli con la Turchia saranno messi a dura prova dalla pretesa di Erdogan di ottenere l’estradizione di Fetullah Gulen, accusato di avere ordito il fallito golpe di luglio. La stessa Isis, secondo Trump, sarebbe figlia degli errori di Obama.

L’altro obbiettivo, di frenare la corsa dell’Iran alla bomba atomica e di ristabilire i rapporti con Teheran sembrava – almeno parzialmente – raggiunto con gli accordi di Losanna, ma gli ultimi sviluppi non promettono nulla di buono: l’Iran, irritato per il mantenimento di importanti sanzioni, continua a sperimentare nuovi missili, ha lasciato usare ai russi una sua base aerea e rimane il miglior alleato di Assad. È vero che, formalmente, è a fianco dell’Occidente nella lotta contro l’Isis, ma in realtà combatte una sua guerra separata.

Brutte notizie giungono anche dall’Afghanistan, da cui Obama aveva promesso di ritirarsi solo per cambiare idea di fronte alla realtà: debolezza del governo di Kabul, intensificazione degli attentati e avanzata dei Talebani in varie province. Molto peggiorati, infine, sono i rapporti - anche personali - con Putin, soprattutto sulla questione ucraina. L’America ha fortissimamente voluto le sanzioni per punire Mosca dell’invasione della Crimea, ma queste non hanno fatto retrocedere lo Zar di un centimetro; e la collaborazione con il Cremlino su questioni vitali come Siria e Corea del Nord si è molto deteriorata.

A fronte di questi insuccessi, la Casa Bianca sbandiera soprattutto la riconciliazione con Cuba, ma neppure qui tutto procede per il verso giusto: anche senza sanzioni, Cuba rimane una dittatura, e Washington ha quasi accantonato (come del resti ha fatto in Asia) il cruciale problema dei diritti umani. Nell’insieme, dunque, una pagella ricca di cinque e di quattro: certo non l’eredità di un mondo più pacifico, addirittura senza armi nucleari, in cui l’idealista Obama sperava.

© RIPRODUZIONE RISERVATA