Manca fratellanza
e non c’è vera pace

Vent’anni dopo gli Accordi di Dayton, che hanno fermato la guerra, ma fatto crescere via via il peso di una pace mai cominciata, Papa Francesco a Sarajevo ha pronunciato l’unica parola chiave dalla convivenza degli slavi del Sud. È quella che in questi anni tutti hanno cercato di dissimulare.

Bergoglio la pronuncia alla sera davanti ai giovani, ultimo appello che consegna alla generazione dei ventenni, nati durante la guerra e che mai ne hanno provato il valore. La parola è «fratellanza», che nei Balcani è stata espulsa dal vocabolario collettivo per via dei nazionalismi contrapposti e di antichi rancori a cui molti si sono applicati con vigore e ferocia inaudita. Papa Francesco ieri ha scommesso che solo i giovani e i bambini possono riportarla al centro della semantica dei Balcani.

È questo il tratto più importante delle 12 ore passate da Bergoglio a Sarajevo. Vent’anni dopo Dayton, vent’anni dopo il genocidio di Srebrenica, che si ricorderà l’11 luglio, il Papa spiega che non basta più parlare di pace, non servono predicatori, ma operatori, che facciano il «lavoro della pace». Ha capito tutto subito all’aeroporto, appena atterrato osservando i bambini e i giovani. Erano serbi, croati e musulmani, tutti insieme lì ad aspettarlo nei costumi tradizionali dei tre popoli.

Ma davanti a loro a far da contrappunto negativo di una fratellanza che ancora non si vede, c’era ad accogliere il Papa solo il presidente croato della presidenza tripartita della Bosnia. C’è qualcosa che non funziona e il Papa lo ha detto. C’è una lezione ancora da imparare da parte della politica locale e da parte della Comunità internazionale che teme la parola fratellanza. L’immagine di Bergoglio in mezzo ai tre presidenti resta un monito alla Cancellerie di tutto il mondo, che finora non sono riuscite nell’impresa di passare da un dopo guerra di rancore alla pace e alla fratellanza. Il Papa ha spiegato come si fa la pace, ha dettato il percorso di una road map che non si può rinviare a vent’anni dalla fine delle ostilità. La pace si fa purificando le memorie, trovandone una condivisa e non soltanto collettiva, che non dimentica l’orrore, non chiede vendetta, ma perdono e giustizia. Per riuscirci tuttavia occorrono cittadini nuovi e non vecchi militanti dei nazionalismi contrapposti, occorrono bosniaci senza aggettivi, occorre spogliarsi delle maschere dell’odio etnico che troppi hanno imposto sui volti della gente di qui.

Il valore della cittadinanza è sparito in Bosnia, l’unità è stata spezzata dalla contrapposizione del mito identitario dell’etnia, che ha sfruttato le religioni per le sue scelte più nefaste. E le religioni sono cadute nella trappola. Quando venne Wojtyla nel 1997 non ci fu un incontro collettivo dei leader religiosi. L’impresa è riuscita a Bergoglio. Le religioni, nonostante rigurgiti di fondamentalismi intrecciati, hanno dimostrato ieri di essere più avanti della politica. C’è un consiglio interreligioso che funziona a Sarajevo e le cose dette ieri dai leader musulmani, ortodossi, ebrei e cattolici davanti al Papa dimostrano che una strada è aperta.

Ma la scommessa si più fare solo sui giovani e i bambini, a patto che vengano protetti dall’odio e dalla narrazione di una memoria contrapposta. Bergoglio ha spiegato con chiarezza che si tratta di lavoro artigianale e richiede «passione, pazienza, esperienza, tenacia». E ha affidato l’impresa ai giovani, dopo aver ascoltato la loro denuncia contro chi in questi anni ha imposto il «noi» e il «loro», mitologie di una convivenza spezzata e ora irrimediabilmente frantumata. Chi aiuterà Bergoglio a vincere la scommessa?

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