Ho conosciuto Rosita Poloni nel 2020 facendo volontariato con Superbergamo , l’associazione spontanea di mutuo aiuto nata dall’idea dei ragazzi del circolo Maite di Città Alta per portare spese e medicinali alle persone in difficoltà durante la pandemia. Rosita, oltre a occuparsi professionalmente di comunicazione nel settore sociale, è da 24 anni membro attivo e tra i rappresentanti dell’ Associazione Italiana Amici di Neve Shalom Wahat al-Salam . L’Associazione sostiene e promuove l’opera di Neve Shalom Wahat al-Salam, che significa «Oasi della pace» in ebraico e in arabo. Neve Shalom Wahat al-Salam (NSWS) è una comunità spontanea che ha sede in Israele e ha statuto di municipalità ufficiale. Lì convivono ebrei e palestinesi, tutti di cittadinanza israeliana. È un luogo in cui le persone di diverse nazionalità, culture e religioni vivono insieme, lavorando attivamente per promuovere la pace, la tolleranza e la comprensione reciproca.
È all’interno della comunità culturale di NSWS che Rosita si è formata, approfondendo i temi della coesistenza pacifica, dell’educazione alla pace e del dialogo interculturale. Temi di cui penso sia oggi più che mai importante parlare. Soprattutto in questo 25 aprile, in cui gli echi delle guerre e dei totalitarismi riempiono la nostra informazione e i nostri pensieri. Ho pensato perciò di scrivere un filamento un po’ anomalo. Un filamento senza filamenti che parli di un’esperienza di pace in una delle crisi conflittuali peggiori e più complesse della storia.
CP: Come hai conosciuto questa realtà?
RP: Nel 2001 e 2002, durante l’inizio della Seconda Intifada, ho abitato a Tel Aviv e, nel primo anno, ho scritto la mia tesi di laurea in Scienze dell’Educazione su Neve Shalom Wahat al-Salam. Il titolo era «Affrontare il conflitto per fare la pace: l’esperienza educativa di Neve Shalom Wahat al-Salam». Per un anno tutti i giorni mi sono recata al villaggio, ero fissa all’Ufficio comunicazione e sviluppo, è stata la mia chiave di accesso. Ho conosciuto lì quello che sarebbe diventato il mio maestro, il mio “alfabetizzatore” rispetto alla situazione. Si chiamava Abdessalam, era palestinese israeliano, mi ha presa per mano e aiutata a entrare in un contesto all’apparenza comprensibile e vicino, invece no. Per la mia ricerca ho intervistato una ventina di famiglie e di singoli, ho cercato di capire come questa sfacciata “assunzione del conflitto” potesse far posto a un futuro differente. È stato un attraversamento che ha modificato il mio modo di stare al mondo, di concepire le relazioni, il concetto stesso di verità. Sono tornata in Israele circa 15 volte dal 2002 ed è sempre un tempo benedetto di scoperta e di conoscenza, ma anche di sofferenza.
CP: Che cosa c’è di rivoluzionario in questa esperienza?
RP: Innanzitutto si tratta di un tentativo effettivo e durevole che si compie mentre esistono un conflitto, un’occupazione militare, guerre di varia entità e durata tra le due parti coinvolte. Cioè non è un’operazione ex-post, ma avviene “durante”. Secondariamente, la determinazione con cui si è investito da subito nell’istruzione e nell’educazione non formale come veicoli di cambiamento dell’umano, come possibilità di formare uomini e donne preparati alla convivenza, capaci di legittimazione reciproca e di giustizia. Serve coraggio, ma serve anche (e questo è un altro aspetto che io trovo rivoluzionario) una capacità di stare nell’ambiguità, nel chiaroscuro, nella criticabile posizione di chi si sporge verso l’altro (e in questo caso l’altro è il nemico reale, concreto) e cerca un’alternativa non violenta. Si tratta di scegliere, ogni giorno ad ogni passo, la strada in salita, quella che non rassicura. Significa concretamente adoperarsi per la realizzazione dei principi vitali di NSWAS: il bilinguismo, il binazionalismo, la democrazia reale, la legittimazione della controparte, la considerazione di una narrazione antitetica, ma altrettanto rispettabile e vitale, dell’attualità e della storia.
CP: La pace si impara, è un processo. Cosa ci insegna su quest’aspetto l’esperienza di NSWAS?
RP: Sì, questa era una frase che Padre Bruno Hussar, il fondatore di NSWAS, usava spesso. Lui, ebreo di nascita, arabo madrelingua perché cresciuto al Cairo, poi convertitosi al cristianesimo, portava in sé un congregato di identità apparentemente discordanti, ma accordabili invece nel pensare all’esistenza come a un’esperienza plurale, come un processo da costruire cui dedicare intenzionalità, cura, tempo, energie. Aggiungo io, “mestiere”. Le istituzioni educative di NSWAS sono nate per insegnare a costruire la pace, passando attraverso il conflitto.
CP: Cosa significa?
RP: Informare, conoscere, analizzare le dinamiche in atto. Riconoscere il ruolo e le responsabilità dei due gruppi nazionali coinvolti e dei loro sottogruppi. Assumere una prospettiva consapevole che permetta di far posto ad un modo differente e antitetico di vedere e raccontare gli eventi storici. Per esempio, nelle scuole si studiano entrambe le narrazioni, il prossimo 14 maggio sarà per gli ebrei israeliani il Giorno dell’Indipendenza e per gli arabi palestinesi il Giorno della Naqba (catastrofe). Parole che esplodono significati, vissuti, sedimenti di racconti che per generazioni passano di bocca in bocca, di pelle in pelle.
CP: Cosa si fa oggi in tempo di guerra a NSWAS? Quali azioni per cercare di mitigare la brutalità di quello che sta accadendo e dare senso all’insensato?
RP: NSWAS non è un microcosmo impermeabile. Molti dei suoi residenti palestinesi hanno parenti a Gaza, una donna ha perso 27 membri della sua famiglia. La componente ebraica ha vissuto lo shock del 7 ottobre, scoprendosi più vulnerabile di quanto immaginasse e, di nuovo, Israele è un paese piccolo, molte persone conoscono persone uccise negli attentati del 7 ottobre, oppure rapite. Una cara amica di molti al villaggio era Vivian Silver, uccisa nel suo kibbutz. Uno dei residenti è un medico che normalmente lavora come volontario anche a Gaza, in questi mesi è in contatto costante con i suoi colleghi e informa il villaggio. La sofferenza e il disorientamento sono entrati di prepotenza nella vita della comunità. Inizialmente hanno organizzato degli incontri uninazionali per un primo confronto nella propria lingua madre, senza filtri. Poi hanno avviato degli incontri binazionali, facilitati da mediatori esterni della Scuola per la pace, per parlarsi, ascoltarsi. Siccome organizzare i momenti tradizionali di lutto in questa fase non è possibile per ragioni prettamente politiche e di effettiva restrizione della libertà di espressione, hanno creato una “Bereavement Tent”, una tenda del lutto. Si sono incontrati, si sono raccontati le perdite personali subite, il senso di disorientamento, hanno condiviso paure e dolore, ma anche lasciato scorrere la capacità di riuscire a vedere la sofferenza dell’altro e far posto. Non si tratta di momenti istituzionalizzati: partecipa chi desidera, come desidera. Ma rimangono setting ideati per tutti e tutte.
CP: Come vedi l’informazione sui canali ufficiali nazionali sulla crisi?
RP: In Italia ascolto e leggo alcuni bravi corrispondenti e alcuni bravi analisti che si occupano da tempo di Israele e di Palestina e sanno orientarsi velocemente nel groviglio delle informazioni. Il problema non è la penuria di dati o di fonti, quanto la fatica a pesarli, contestualizzarli, unitamente al fatto che non sono ammessi giornalisti nella Striscia di Gaza se non embedded all’esercito israeliano. Pertanto, non esiste uno sguardo più affine al nostro culturalmente, più “neutro” se vogliamo usare questa parola. Ho osservato una scelta narrativa, da una parte del giornalismo italiano e internazionale, che considerava il 7 ottobre un inizio, come se non si inscrivesse all’interno del contesto decennale di una occupazione militare e di un conflitto, come se non avesse nulla a che fare con 17 anni di assenza di elezioni in Cisgiordania e nella Striscia o 16 anni di chiusura effettiva e sigillata di Gaza o con un movimento, quello di Hamas, che ha una storia articolata e densa. Questa scelta sposta la responsabilità dell’inizio su chi ha agito quel giorno, non si prende l’onere della contestualizzazione effettiva. A tratti è mancata l’onestà dei fatti, ma anche l’intelligenza degli stessi.
CP: Cosa possiamo fare noi? Che importanza ha la sensibilizzazione internazionale su questi temi?
RP: Ricordarci che siamo parti terze e che portiamo la responsabilità di nutrire un dialogo pulito e costruttivo. La scelta delle parole spesso radicalizza la comunicazione. Confrontarsi non significa convergere o ammansire una posizione: significa costruire contesti capaci di scambio effettivo. Credo sia necessario tenere accesa l’attenzione su quanto accade consapevoli del ruolo che i nostri paesi giocano. Quanti di noi conoscono per esempio la dimensione del mercato italiano delle armi in questa specifica guerra? Siamo d’accordo? Va bene così? Dobbiamo esigere che i nostri governi, le istituzioni internazionali, perseguano la strada della cessazione della violenza, della ricerca diplomatica di una soluzione giusta. Riaffermando non solo il diritto internazionale e la passione per la pace, ma anche una visione di umanità evoluta, matura, capace, che non ricorra alla guerra con questa facilità. Credo infine sia importante, per quanto faticosissimo, mantenere aperti i canali culturali, artistici ed accademici (quando non connessi a temi di tipo militare) con tutti, con gli israeliani e con i palestinesi. L’arte, la cultura, l’istruzione possono essere terreni di incontro fecondi.
Per saperne di più sull’esperienza di Neve Shalom Wahat al-Salam, segnalo che due residenti di NSWAS saranno per incontri pubblici il 9 maggio alle ore 17.30 a Torre Boldone presso la Sala Civica e il 10 maggio alle ore 20.45 a Bergamo al Centro La Porta.
Inoltre, letture interessanti su questi temi sono « Un dettaglio minore » della scrittrice palestinese Adania Shibli, che racconta una storia di scoperta di verità e riscatto dentro la Palestina occupata, attraverso la ricostruzione di una narrazione capace di fare memoria dell’ingiustizia, solo “dettaglio” per la grande storia, e la raccolta di poesie « Things you may find hidden in my ears », in cui il poeta e studioso palestinese Mosab Abu Toha scrive della sua vita sotto assedio, prima da bambino e poi da giovane padre. Il libro ha vinto diversi premi, tra cui il Palestine Book Award nel 2022.
E ancora, « La simmetria dei desideri » dello scrittore israeliano Eshkol Neve, sul tema del desiderio di connessione, delle scelte personali e delle relazioni come fonte di gioia, ma anche di dolore e conflitto. Infine, l’opera di Mahmoud Darwish, poeta, attivista culturale, giornalista palestinese, che ha scritto poesie tradotte in varie lingue per dare voce alle esperienze e alle lotte del popolo palestinese, esplorando le complessità della sua identità e della sua storia.