In una delle sue interviste più note, l’ultima rilasciata prima di essere ammazzato, a una domanda sul possibile scandalo che avrebbe potuto seguire l’uscita del film «Salò o le 120 giornate di Sodoma», Pier Paolo Pasolini rispondeva: «Io penso che scandalizzare sia un diritto, essere scandalizzati un piacere, e chi rifiuta il piacere di essere scandalizzato è un moralista, il cosiddetto moralista». Tralasciando ogni considerazione sulla dissoluzione di qualsiasi traccia di anticonformismo e irriverenza verso il potere – dei costumi, della morale e della cultura borghese – cui la società italiana contemporanea si è ormai abituata, si può immaginare che quelle parole di Pasolini possano valere anche per Pier Vittorio Tondelli, giovane e controverso (per la morale dominante, appunto) autore in attività negli anni Ottanta, morto di AIDS nel 1991 a soli 36 anni.
Il libro d’esordio di Tondelli, «Altri libertini», nel 1980, anno della pubblicazione, aveva decisamente scandalizzato, per quei protagonisti che erano emarginati sociali, tossicomani, transessuali e omosessuali della provincia italiana, raccontati con un linguaggio autentico e senza fronzoli, fatto anche di turpiloqui. Il libro, a dispetto dei detrattori, ha vinto la sfida con il tempo, ed è in grado come pochi, ancora oggi, di restituire l’autenticità di un contesto culturale e sociale, delle sue “risonanze emotive”. Il libro si trasformò in un caso letterario per via del processo per oscenità e blasfemia e oltraggio alla morale a cui fu subito sottoposto l’autore, ne fu richiesto addirittura il sequestro. L’anno seguente Tondelli fu assolto, e il libro riprese a circolare liberamente.
Oggi Tondelli è uno scrittore di culto, ha pubblicato tutti i suoi romanzi negli anni Ottanta ed è considerato tra i più talentuosi e rappresentativi del postmodernismo letterario italiano: interprete della cosiddetta controcultura omosessuale, fu particolarmente sensibile nel registrare le “patologie” giovanili del suo tempo – i “gloriosi” e malefici anni del “riflusso nel privato”, del trionfo della merce, della pubblicità e delle TV private e del mondo dello spettacolo, dei centri commerciali e dei fast-food, del successo economico individuale come misura di rispettabilità, del rampantismo e della realizzazione personale come religione laica – e interpretarle all’interno dei suoi romanzi, nei suoi personaggi, con le loro insoddisfazioni e invincibili malinconie. Perché è soprattutto questo, sembrano dirci le sue storie, che genera la società tardo-capitalistica, nell’illusione delle infinite possibilità che offre: insoddisfazione, malinconia, una specie di magone esistenziale irrimediabile che spinge finanche all’emarginazione, all’abbandono, alla solitudine.
Ne parla dettagliatamente Gabriele Galligani, insegnante e scrittore bergamasco – di cui ci eravamo già occupati su queste pagine – nel suo saggio «Il sommo revival. La società dello spettacolo nei romanzi di Pier Vittorio Tondelli», edito da Transeuropa , casa editrice con cui lo stesso Tondelli collaborò.
È una ricognizione di quattro romanzi e una raccolta di articoli pubblicati dallo scrittore emiliano tra il 1980 e il 1990 («Altri libertini», «Pao Pao», «Rimini», «Camere separate» e «Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta») che Galligani rilegge alla luce di alcune importanti teorie sociologiche e filosofiche sulla società dei consumi e dello spettacolo (si parla di Guy Debord, Jean Baudrillard, Mark Fisher, Byung-Chul Han e altri). Individuando l’influenza della cultura dello spettacolo nelle pieghe dei romanzi tondelliani, Galligani prova a rintracciare l’origine di quel magone esistenziale di cui Tondelli è interprete nei suoi scritti, e che è la tinta dominante della sua narrativa («scrittore del magone» lo definisce Marco Belpoliti in «Pianura»).
Tondelli riuscirebbe così a fornire una «resa narrativa» di alcune tra le più influenti teorie critiche postmoderniste, attraverso un diffuso riferimento, nelle vite dei suoi personaggi, a elementi della cultura nazional-popolare, alla dimensione mediatica e spettacolare, alla cultura di massa: cinematografica, televisiva, radiofonica. Una resa che ha dissodato il terreno a un intero filone letterario esploso negli anni Novanta – quello dei cosiddetti “cannibali” e della “pulp-fiction” – in cui si è normalizzato l’ingresso nel romanzo italiano di nuovi temi e topoi (il consumismo, i non-luoghi, la TV, il postumanesimo, le citazioni, eccetera) e di codici linguistici innovativi, alti e bassi insieme, gergali o sottoculturali.
La narrativa tondelliana si dimostra ancora in grado di parlare al presente proprio perché capace di «precorrere dinamiche concretizzatesi anche decenni dopo la sua morte, con l’evoluzione dei mezzi di comunicazione e dello spettacolo», scrive Galligani. Le storie che racconta parlano di avventure, scoperte, trasgressioni ed eccessi; «non sfociano mai in una piena soddisfazione o felicità», ma finiscono per dare corpo alla nostalgia, alla malinconia che accompagna la ricerca d’identità quando si nutre di modelli spettacolari da imitare, di simulacri effimeri a cui protendere.
Ci sono poi la difficoltà di vivere appieno l’esperienza amorosa e le relazioni, l’individualizzazione dell’esperienza – quella che prima era davanti la TV o con il walk-man, oggi è davanti allo smartphone – e la ricerca di un’emancipazione esistenziale che sembra impossibile. Anche per questo non possono che continuare a essere di estrema attualità. Il breve saggio di Galligani offre l’occasione di scoprire o ampliare la conoscenza di un grande scrittore italiano, nel suo essere una specie di “criptonite” per benpensanti, moralisti e conservatori. Uno di cui, insieme a Pierpaolo Pasolini, si sente una disperata e malinconica mancanza oggi. Ecco, quasi un magone.