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Marco Belpoliti, noi gente di pianura

Articolo. Il saggista, docente e critico letterario reggiano traccia un percorso di riallacciamento e di intreccio che procede per alcuni luoghi del suo territorio d’origine, la Pianura Padana. Ne esce una specie di libro della vita, tra storia personale e collettiva. Edito da Einaudi.

Lettura 3 min.

Piatta è piatta” ribadisce subito nell’incipit. Eppure, al di là della conformazione, la Pianura vive (o muore, se si preferisce) di una dinamicità inesausta e particolarmente emblematica quando si tratta di immaginari e del loro ribaltamento, di contraddizioni, di opposti che convivono, conflitti e convivenze perturbanti – le infinite colate di cemento e l’odore di letame, la büseca e i fast-food negli outlet, le rogge e i capannoni industriali, l’ultra-provincia dei paeselli e i suoi non-luoghi americaneggianti, gli elementi di vita – terra e acqua – e l’aria più inquinata d’Europa. “La pianura era una madre inospitale, come lo sono tutte le madri” scrive Andrea Morstabilini nel suo Aldilà, romanzo horror contemporaneo ambientato nella pianura pavese.

Spesso in bilico tra incanto e abominio, la Pianura Padana continua a essere una sorgente misteriosa e munifica per scrittori, registi, fotografi e per chiunque altro abbia – e abbia avuto – a cuore le storie delle persone e dei luoghi, dei rapporti specifici che li legano e dei cambiamenti che li riguardano.

Quello di Belpoliti è un viaggio lungo più di quarant’anni, orientato secondo le coordinate di una personale mappa topografica-spirituale. Si procede per luoghi (non solo fisici) e personalità più o meno note che, in qualche modo, hanno qualificato il territorio padano e il percorso umano e professionale dell’autore – peraltro docente all’Università degli Studi di Bergamo. Affluenti di una vita da intellettuale, si potrebbe dire. Si avvicendano così storia collettiva e storia personale, incontri, amicizie, excursus e motivi ricorrenti dell’attività di saggista e accademico.

Prima di tutto però c’è una mappa della pianura emiliano-romagnola. Stilizzata, essenziale, disegnata a penna. È la zona di vocazione. Una sintesi, quasi un indice illustrato. C’è il Po, naturalmente. Ci sono soprattutto i centri urbani (e quindi culturali, non a caso) sulla direttrice della via Emilia, a partire da Milano. Come fossero quartieri cittadini o località periferiche, si trovano appuntati dei nomi-contenitori: Giulia Niccolai, Angela Ricci Lucchi e Yervant Gianikian, Gianni Celati e Luigi Ghirri, Pier Vittorio Tondelli, Giuliano Scabia, Giovanni Lindo Ferretti, Sandro Vesce, Giuliano Della Casa, Antonio Delfini, Piero Camporesi, Marco Martinelli e Ermanna Montanari. Ma se ne troveranno molti altri proseguendo.

Sono alcune delle tappe di navigazione attraverso cui rievocare memorie personali, aneddoti, o per costruire riflessioni su presunte (e verosimili) predisposizioni attitudinali, umorali, finanche antropologiche della gente di pianura (“Che cos’è questa nebbia in Val Padana | è un fenomeno dell’umidità | Se rimani in trappola qui dentro | si incasina la mentalità” già scriveva Jannacci e cantavano Cochi e Renato).

Ogni approdo è un’occasione di divagazione per ricostruire la storia della Pianura – e insieme la propria – parlando di architettura, urbanistica, demografia, etimologia, geologia, etologia, o semplicemente di amicizia e complicità, in un’alternanza tra campi lunghi e primi piani, tra privato e pubblico, personale e collettivo, in cui è sempre dominante la prospettiva dell’io narrante.

Si tratta di un corpo come somma delle parti, che Belpoliti compone con un ricamo sottile, fatto di rimandi reciproci e giochi di riflessi in cui trovare il nesso tra la Colonna infame e Pinocchio, il paganesimo e Piero Camporesi, le anguille e le cartografie di Opicino De Canistris, il punk sovietico dei CCCP e gli antichi Liguri, il found footage e gli affluenti del Po, la stazione di Reggio Emilia per Tondelli e il fratello di Annibale.

Tutto contribuisce a tracciare un profilo più alto, una definizione che scaturisce dal montaggio degli elementi. E che serve anche a dare unitarietà di senso a una forma-ibrido in cui convivono saggistica e narrativa, memoriale e diario di viaggio, biografia, reportage e persino tracce di romanzo epistolare – l’autore si rivolge a un tu, un amico di infanzia che resta ignoto. Utilizza vecchi appunti o scritti personali, materiali prodotti nel corso del tempo e lì confluiti. E a tratti si ha l’impressione, in effetti, di trovarsi di fronte a una giustapposizione di contributi sparsi, di frammenti sottoposti allo sforzo di trovare una coerenza nello stare insieme al di là del cappello condiviso della localizzazione.

E una coerenza c’è, naturalmente. Fosse anche solo – ma non è tutto qui – nella capacità che ha l’autore di attingere e raccontare, comparare, aprire squarci, lanciare spunti e suggestioni. Ciò nonostante, talvolta, si facciano notare l’ego, la posa dei rapporti privilegiati, piccole dosi di compiacimento e di autoreferenzialità. A conti fatti, però, è ben evocato uno spirito del luogo e del tempo, invisibile ma percepibile, che diventa quasi un sentimento, inafferrabile come la nebbia, qualcosa che ha a che fare con la nostalgia, con un senso di appartenenza. E che, proprio come la nebbia di Ghirri, non nasconde ma rivela.

Rivela anche la consapevolezza di un’origine. Parlando di Nel segno dell’anguilla, di Patrik Svensson, Belpoliti scrive: “(...) Patrik aveva capito che l’origine è qualcosa che dà forma alle persone, che lo vogliano o no, e chi non conosce le proprie origini in qualche modo si sentirà perso. Forse è per questa ragione che ti sto scrivendo queste pagine: per capire da dove vengo. Svennson dice che lui stesso non sa da dove viene e neppure dove va (...) L’origine è il punto di partenza e anche quello di arrivo?

Da qui partono, probabilmente, gli spunti di riflessione più stimolanti, anche rispetto i limiti del testo, per provare a capire cosa sia oggi e cosa sarà domani, quel “mondo” – la Pianura – propagandato in fascetta. Niente di più probabile che non fosse nemmeno nelle intenzioni dell’autore. Eppure, proprio perché non punta in quella direzione, gli interrogativi li scatena: cos’è oggi la Pianura Padana? Cosa e chi rappresenta? Ha ancora senso parlare di radici, di identità? Oppure, a coloro che non sono cresciuti pescando nei canali o catturando rane a mani nude, non resta che rassegnarsi ad essere “nativi escremenziali”? Quale forma abbiamo? A cosa apparteniamo? Possiamo dire di appartenere ancora a un luogo, al luogo che chiamiamo Pianura Padana? C’è ancora – e ci sarà – un’origine a cui arrivare, un percorso da compiere che non sia frainteso con un perpetuo girare in tondo?

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